Catastrofe sanitaria ed economica, e prove tecniche di regime. Tutto con il silenzio-assenso del Quirinale
Prima la sottovalutazione, il periodo che chiameremo degli involtini, dove l’unica preoccupazione era non discriminare i cinesi. Poi, il panico e la confusione alla scoperta del focolaio di Codogno (già, il virus girava da settimane incontrollato in Lombardia). Il 23 febbraio lockdown del lodigiano e messaggi allarmistici, la gente che comincia a non andare a cena fuori. Quindi il dubbio: ma non avremo esagerato? Rilassamento e di nuovo sottovalutazione, il periodo che chiameremo degli aperitivi. Il più famoso, forse, che si è guadagnato l’incipit di un lungo reportage del New York Times (su cui torneremo), quello di Zingaretti a Milano il 27 febbraio (400 casi positivi e vittime già a doppia cifra): “Il segretario Dem alla manifestazione organizzata dal partito con i giovani nella zona dei Navigli”, scriveva la Repubblica, nell’ambito della campagna #Milanononsiferma promossa dal Partito democratico e dal sindaco Sala. Lo stesso Zingaretti che in veste di presidente della Regione Lazio qualche settimana prima se la rideva in tv: Coronavirus? “Abbiamo 85 mila ricoverati per influenza e solo 2 per coronavirus, ahahaha…”. “Siamo passati dal rischio di un’epidemia ad una infodemia“, lamentava il ministro Di Maio.
Ma i numeri continuano a crescere vertiginosamente e arriva il pasticcio nella notte tra sabato 7 e domenica 8 marzo, il lockdown della Lombardia, annunciato come tale, che fa scappare migliaia di persone verso il centro-sud, ma che alla fine era solo una decisa esortazione a evitare spostamenti inutili, decreto poi esteso a inizio settimana al resto del Paese.
Ieri notte, dopo diversi rinvii, un’altra diretta Facebook del premier Conte (nemmeno una Giunta sudamericana…) – ma intanto i governatori di Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna avevano già emanato le loro ordinanze – per annunciare il blocco delle attività produttive “non essenziali”, sempre per Dpcm (ma anche su questo torneremo). Ormai è il caos istituzionale, la disgregazione del Paese, con il presidente della Repubblica – il vero demiurgo di questo governo, non dimentichiamolo mai – che non si vede e non si sente, qualcuno potrebbe dubitare che sia in salute o persino che si trovi ancora nel Paese.
Ma a cosa è dovuta questa nuova stretta, se i morti di questi giorni si sono contagiati 2-3 settimane fa, in piena fase aperitivi, e secondo il parere unanime degli scienziati gli effetti sulla curva epidemica delle misure adottate con i decreti del 9 e dell’11 marzo cominciano a vedersi dopo 14 giorni almeno, cioè da martedì o mercoledì prossimi? C’erano obiettivi che ci si aspettava di raggiungere prima di due settimane e non sono stati raggiunti? Quali dati e valutazioni scientifiche alla base di questa decisione? E vi pare responsabile annunciare il blocco di tutte le attività produttive “non essenziali” senza pubblicare immediatamente un elenco ufficiale più che dettagliato? Si procede a tentoni, chiusure a rate, senza una logica, un piano, senza una politica economica straordinaria, senza le risorse necessarie né finanziarie né per far fronte all’emergenza sanitaria… Totale improvvisazione. Si chiudono le fabbriche ma si è pensato a una mobilitazione della Protezione civile per portare agli anziani il necessario per non farli uscire di casa nemmeno per la spesa e i farmaci?
Il nostro timore è che a guidare questa decisione siano stati in egual misura il panico e il paraculismo politico: non essere criticati per non aver fatto tutto il necessario, che equivarrebbe alle misure più estreme, che però non sono per forza quelle più efficaci o sagge.
Qui su Atlantico lo diciamo da settimane: il governo è allo sbando e il problema è a Palazzo Chigi.
Nemmeno due settimane fa sono state adottate misure drastiche, che richiedevano in questi giorni sangue freddo: impegno a farle rispettare e a soccorrere gli ospedali e le zone in difficoltà. Invece, ancora lo stillicidio di voci e ipotesi di restrizioni, persino nel fare la spesa.
Ci sono situazioni drammatiche sottovalutate da settimane in alcune province, dove il sistema sanitario è evidentemente collassato, ma in questi giorni la preoccupazione principale degli esponenti di governo e di maggioranza, e lo sport preferito di diversi giornali e tv, è dare la caccia al runner e ai “furbetti”. E magari sono gli stessi che con altrettanta solerzia prendevano parte alla fase aperitivi. Da giorni si stanno accanendo su chiunque si muova, quando le migliaia di morti che ci spaventano oggi si devono alla loro sottovalutazione di ieri, agli involtini, agli abbracci ai cinesi, agli aperitivi, ai ritardi e all’incapacità del governo di mettere a punto un piano anziché rincorrere gli eventi, di riconoscere un focolaio per tempo e concentrare su quello la macchina dei soccorsi.
Stiamo assistendo in queste ore ad un indegno scaricabarile sugli italiani, sulla base del luogo comune della loro innata indisciplina. Ci sembra, invece, che la stragrande maggioranza dei cittadini stia rispettando le misure. Certo, siamo 60 milioni, qualcuno che non rispetta le regole è inevitabile, ma viene il dubbio che tanto accanimento nella caccia al trasgressore serva in realtà per far dimenticare le responsabilità della politica e delle istituzioni.
Nel frattempo, in alcune aree del Paese il sistema sanitario è al collasso, mancano medici e infermieri, ventilatori polmonari e dispositivi di protezione, ci sono i tamponi ma non le forze necessarie in laboratorio per analizzarli, perché ci si è fatti sorprendere impreparati dal virus. In tutto questo, settimane di comunicazione istituzionale assente o contraddittoria, liti tra Governo e Regioni, e improvvisamente la colpa è di qualche migliaio di italiani indisciplinati. Una frase del ministro Di Maio di ieri è emblematica: “Lo Stato ha il dovere di reagire all’irresponsabilità dei cittadini”.
Ci avviciniamo ai 1.000 (mille) decessi al giorno, ma lo ribadiamo: i morti di oggi si sono contagiati 2-3 settimane fa, ed è ad allora che occorre risalire per cercare cosa non ha funzionato. La sottovalutazione prima di Codogno e nei giorni immediatamente successivi, quelli degli aperitivi e del “non fermiamoci”, anche e soprattutto da parte delle istituzioni.
Hanno chiuso il lodigiano e per giorni hanno pensato che fosse finita lì, anzi di aver esagerato, mentre stavano già esplodendo focolai in altre province della Lombardia dove oggi la situazione è fuori controllo, come Bergamo, dove le salme vengono trasportate dai camion dell’esercito in altre province per essere cremate.
Nella drammatica intervista dell’Huffington Post al sindaco di Bergamo Giorgio Gori c’è tutto: com’è andata, perché così tanti morti, l’ammissione di responsabilità.
Si stanno facendo miracoli, “moltiplicati i posti letto, inventati nuovi spazi per le cure intensive”, ma “non basta”, le persone che avrebbero bisogno di cure sono “molte di più”. Gori conferma quanto dichiarò già alcuni giorni fa, poi in parte ritrattato: i medici sono già alla scelta di chi salvare e chi no. “Ci siamo arrivati da un pezzo. Quando ho parlato della dolorosa scelta di quei medici parlavo di fatti di cui ero assolutamente certo”.
Ci sono anziani che muoiono in casa, per loro non solo non c’è terapia intensiva, ma nemmeno un’ambulanza, in ospedale non ci arrivano proprio:
“È quello che sta accedendo. In questa provincia il numero dei decessi a causa del virus è di gran lunga superiore a quello delle statistiche ufficiali. Molti malati anziani muoiono di polmonite a casa loro, o nelle case di riposo, senza che nessuno abbia fatto loro un tampone, né prima né dopo il decesso. Ho chiamato una dozzina di sindaci, per farmi un’idea: in quei comuni il numero dei decessi attribuibili all’epidemia è all’incirca quattro volte quello ufficiale.”
Non mancano i tamponi, “semmai i tecnici per fare i prelievi, i laboratori per analizzarli”. Ci vogliono giorni per i risultati…
E poi i ritardi: sul focolaio in Val Seriana “non si è intervenuti per tempo”. All’ospedale Fenaroli è andata come all’ospedale di Codogno: medici, infermieri, pazienti, tutti infettati. “Bisognava chiudere, come a Codogno, come ho chiesto anche io, e invece non si è fatto”.
E le campagne “Milano non si ferma”, come “Bergamo non si ferma”? “Sì, era una sottovalutazione”, ammette Gori. “Ci abbiamo messo qualche giorno di troppo a capire, abbiamo sbagliato anche noi, anche io”.
“Bergamo non ti fermare!”, si legge in un suo post Facebook del 26 febbraio, quindi dopo l’esplosione del focolaio di Codogno, nel quale Gori fa sapere di essere “a cena da Mimmo” con la moglie, “per passare una bella serata insieme e dare un piccolo segnale”. Oggi, dice, “non abbiamo dato messaggi sciocchi, ma in quel momento stavamo certamente sottovalutando il pericolo”.
Ancora il 29 febbraio, quasi una settimana dopo l’istituzione della zona rossa nel lodigiano, pubblicizzando un video dei commercianti di Bergamo dal titolo “Continuerò a bere il caffè al bar”, commentava: “#Bergamononsiferma già oggi le persone in centro erano molte di più, segno che il messaggio è arrivato a destinazione. E ricordate che domani oltre 600 negozi saranno aperti!”
Non poteva mancare la sua adesione alla campagna anti-razzista, che per tre settimane tra la fine di gennaio e la metà di febbraio è sembrata essere l’unica preoccupazione delle nostre istituzioni – con foto persino del capo dello Stato in una scuola frequentata da bambini cinesi a Roma. L’11 febbraio Gori porta la sua Giunta a mangiare cinese, erano i giorni della campagna “abbraccia un cinese”, il problema era il razzismo (ricordate?): “Evitiamo che ai problemi veri, quelli legati alla malattia che si è diffusa in Cina, debbano sommarsi quelli generati dal pregiudizio”, scriveva sempre sulla sua pagina Facebook.
Non furono solo Gori, Sala e Zingaretti, ovviamente, anche se i loro messaggi erano rivolti proprio alle zone dove l’epidemia si stava diffondendo più velocemente. Una comunicazione schizofrenica arrivava anche dal governo di Roma.
Strutture sanitarie impreparate a ricevere i casi sospetti, operatori privi del materiale necessario e di un protocollo nazionale, alcuni focolai partiti proprio dagli ospedali (a conferma del fatto che le infezioni ospedaliere sono una piaga della nostra sanità, altro che eccellenza…). E chi frequenta di più gli ospedali per ricoveri o visite? Persone anziane e con più patologie, guarda caso quelle che stanno morendo a centinaia alzando il tasso di letalità del coronavirus in Italia. Questa “l’eccezionalità” italiana, che qui su Atlantico non abbiamo mai negato, pur denunciando la condotta criminale di Pechino, che ha tardato a dare l’allarme e dichiarato numeri fasulli, non permettendo al resto del mondo di percepire in modo corretto le dimensioni della minaccia.
In Italia si muore di più di coronavirus non per un fattore propriamente e banalmente demografico, perché ci sono più vecchi, ma perché ci siamo fatti cogliere impreparati, senza un piano e senza una comunicazione, il virus è circolato senza che ce ne accorgessimo per settimane, è entrato negli ospedali e da lì ha colpito le persone che più li frequentano: anziani con più patologie. Risolviamo questi problemi anziché chiudere le fabbriche, altrimenti non ne usciremo.
Può anche darsi che adesso occorra arrestare chi esce per correre o fare la spesa, ma allora per chi occupa cariche istituzionali e ha sottovalutato, omesso di agire, addirittura sfottuto e lanciato messaggi ingannevoli, cosa ci vorrà, una Norimberga?
C’è un “modello italiano”. Come scrive il New York Times in una lunga e accurata ricostruzione, l’Italia, “nuovo epicentro della pandemia, ha delle lezioni per il mondo”. Da non seguire, s’intende.
Ricostruendo le azioni del governo italiano dall’inizio di questa crisi, emergono “occasioni mancate e passi falsi decisivi che hanno lasciato il Paese nella sua peggior situazione dalla Seconda Guerra Mondiale”, si legge nell’articolo.
“Nei primi giorni critici dell’epidemia, il Governo Conte ha minimizzato la minaccia, creando confusione e falso senso di sicurezza che hanno favorito la diffusione del virus. Nonostante ora abbia adottato alcune delle misure più dure al mondo, le autorità italiane si sono lasciate sfuggire molti di quei passi all’inizio del contagio, quando contava di più mentre cercavano di preservare le libertà civili di base e l’economia”.
E le opposizioni, dove sono le opposizioni in tutto questo, mentre il peggior governo della nostra storia repubblicana ci sta mandando a sbattere contro un iceberg? Sono responsabili, come richiesto dal Quirinale, preoccupate di non farsi accusare di sciacallaggio. Quindi mute. Anzi, chiedono motori a tutta potenza, senza preoccuparsi di come, in base a quali strumenti normativi, il governo sta esercitando il suo potere.
Per l’emergenza ci sarebbero i decreti legge (che scadono non a caso dopo 60 giorni), ma stanno usando i Dpcm, decreti amministrativi, scavalcando Parlamento e Quirinale; Camere di fatto chiuse; pieni poteri all’uomo sbagliato nel momento sbagliato; e chi obietta è uno sciacallo, anti-italiano. Non sono le misure in sé, necessarie, a preoccupare, ma il metodo e il clima. Si fa presto a precipitare in una deriva autoritaria.
A quale altro governo il presidente della Repubblica avrebbe concesso di agire per Dpcm, quindi facendo a meno della sua stessa firma, se non ad un “governo del presidente”? Questo, come ripetiamo da mesi, è già dalla sua nascita un “governo del presidente”. Peccato sia – fatto senza precedenti per un “governo del presidente” – anche di parte e minoranza nel Paese, inadeguato per tempi normali, figuriamoci per una crisi di tale portata.
Ma il concetto di “restare uniti” non può essere tradotto in “noi continuiamo a governare e voi state zitti, altrimenti vi bolliamo come sciacalli”. Il vero sciacallaggio è appigliarsi al “non è il momento di fare polemiche”, è strumentalizzare l’emergenza per delegittimare chi critica e non assumersi le proprie responsabilità quando si ricoprono cariche istituzionali. Alle opposizioni si chiede in sostanza di non fare le opposizioni, ma come abbiamo già osservato: o si ha il coraggio di un governo di unità nazionale, sfrattando da Palazzo Chigi gli attuali inquilini colpevoli di una gestione folle dell’emergenza sotto ogni punto di vista (come ha scritto Daniele Capezzone “un War Cabinet bipartisan”), oppure è osceno solo immaginare di poter azzerare il ruolo delle opposizioni e la dialettica democratica, neutralizzare critiche e polemiche fino a data da destinarsi. Prove tecniche di regime, oltre che catastrofe sanitaria.