Xi Jinping non ha pronunciato un discorso da “guerra fredda”: ha attaccato il corso dell’amministrazione Trump e intimato a Biden di non proseguire su quella via, ma ha proposto un “grande reset” delle relazioni Usa-Cina, fondato su multilateralismo e coesistenza. E, sentendosi forte (avanti nella ripresa dell’economia e accordo con l’Ue), ha tracciato le sue linee rosse (la non ingerenza) e usato argomenti molto consonanti con quelli cari alle élites globaliste. Il leader cinese sostiene il ritorno, dopo la “parentesi” Trump, a quel mix di multilateralismo e globalizzazione economica che ha fatto le fortune della Cina. Multilateralismo che però per l’Occidente può trasformarsi in un abbraccio mortale con il regime di Pechino
Miele per le orecchie delle élites di Davos e un avvertimento all’amministrazione Biden, appena insediatasi. Questa la cifra dell’intervento, in videoconferenza, del presidente cinese Xi Jinping al World Economic Forum. Riecheggiando il suo intervento del 2017, che pochi giorni prima dell’insediamento del presidente Trump mandò in brodo di giuggiole le cancellierie europee e i progressisti nostrani, ha messo in guardia da una nuova Guerra Fredda e si è – di nuovo – presentato come alfiere della globalizzazione economica. Il duplice messaggio recapitato a Washington è che Pechino è pronta alla de-escalation, alla normalizzazione dei rapporti, e vedremo su quali basi, ma che in caso contrario non cambierà certo la sua rotta sotto la pressione delle critiche occidentali.
Nel fissare i suoi paletti per un ritorno alla normalità (in primis la non ingerenza), il presidente cinese ha parlato da una posizione di forza, che gli deriva da una economia più avanti nella ripresa (nel 2020 la Cina è stata il maggiore beneficiario di investimenti diretti); dall’avere in mano un accordo di principio con l’Unione europea sugli investimenti reciproci, siglato poco prima dell’insediamento di Biden; e dalle divisioni interne al suo principale rivale.
Rivolgendosi evidentemente alla Washington oggi Democratica, ma riferendosi ai passati quattro anni di presidenza Trump, Xi ha esortato ad “abbandonare il pregiudizio ideologico” e una pericolosa “mentalità da Guerra Fredda”. Non devono preoccupare le “differenze” (“ogni Paese è unico per storia, cultura, e sistema sociale” e “nessuno è migliore”, “non esistono due foglie identiche”), “ciò che genera allarme è arroganza, pregiudizio e odio”. “Il confronto ci condurrà in un vicolo cieco”, ha insistito Xi, elencando le politiche che gli Stati Uniti devono evitare: “costruire piccoli circoli” (il riferimento è all’alleanza delle democrazie di cui si parla), “respingere, minacciare o intimidire gli altri”, “imporre il decoupling o sanzioni”, “creare isolamento o alienazione”. “Il forte non dovrebbe bullizzare il debole”, “le decisioni non dovrebbero essere prese mostrando i muscoli o agitando un grosso pugno”. Il che, detto dal leader cinese, fa abbastanza sorridere… Comunque, ha avvertito Xi, queste politiche alimenteranno le divisioni e spingeranno verso il “confronto”. A cui, è sottinteso, la Cina non si sottrarrà.
Quindi, ecco le due parole magiche suggerite all’amministrazione Biden per il “grande reset”: la prima è multilateralismo. È l’architrave di tutto il discorso di Xi, tanto da dargli il titolo (“Let the Torch of Multilateralism Light up Humanity’s Way Forward”), e guarda caso è nella bocca di tutti a Washington come principale linea di rottura di Biden rispetto alla presidenza Trump, fondata sull’odiato “unilateralismo”. Un convinto ritorno al multilateralismo è infatti anche nelle intenzioni dell’amministrazione Biden ed è propedeutico, nelle parole del presidente cinese, al secondo principio chiave suggerito: coesistenza.
Ma su quali basi? Ovviamente, quelle più congeniali a Pechino, sia dal punto di vista economico (globalizzazione) che politico (non ingerenza negli affari interni).
Xi ha esortato ad abbattere le barriere commerciali, a rafforzare le organizzazioni e i consessi, G20 in primis, per la governance economica globale, a “rimanere fedeli al diritto internazionale e alle regole internazionali piuttosto che cercare la supremazia”. Un chiaro avvertimento a Biden, con una sfumatura beffarda: non fare il “suprematista”… Ha promesso di “liberare il potenziale dell’enorme mercato cinese e dell’enorme domanda interna”. Dolce e invitante melodia per i poteri economici in ascolto e per i leader europei, che vi trovano conferme agli impegni presi da Xi nel recente accordo.
La rimarcata centralità, nel discorso del leader cinese, di organizzazioni quali WHO e WTO, dell’Accordo di Parigi e di consessi multilaterali come il G20, suggeriscono anche i temi sui quali Pechino vede la possibilità di una cooperazione win-win con gli Usa: Covid, commercio, clima. Mentre dove ci sono differenze politiche, come sui diritti umani, le situazioni dello Xinjiang e di Hong Kong, o lo status di Taiwan, l’invito è di “non intromettersi negli affari interni degli altri Paesi”. “Antagonismo e confronto, sia esso sotto forma di guerra fredda, guerra calda, guerra commerciale o guerra tecnologica, alla fine danneggerebbero gli interessi di tutti i Paesi, il benessere di tutti”.
Il discorso di Xi si chiude con i toni universalistici e lo slogan irenico tanto caro al leader che da qualche anno sembrano annunciare l’avvento del “secolo cinese”:
“C’è solo un’unica Terra e un unico futuro condiviso per l’umanità… Uniamo le nostre mani e lasciamo che il multilateralismo illumini la nostra strada verso una comunità con un futuro condiviso per l’umanità”.
Un multilateralismo, però, che può trasformarsi per l’Occidente in un abbraccio letale con il regime cinese.
L’obiettivo della leadership di Pechino nell’approcciare l’amministrazione Biden è infatti quello di ripristinare quell’inerzia nell’ordine globale, che prima della presidenza Trump stava garantendo alla Cina di ridurre molto velocemente il gap con l’Occidente – a danno delle classi medie, delle capacità manifatturiere e della stabilità politico-sociale di quest’ultimo – e di lanciare la sua sfida alla leadership Usa. “Coesistenza” significa questo per Pechino: avere la garanzia di poter continuare a lucrare sulle falle e sui bug del sistema e che l’Occidente, Stati Uniti in primis, non oppongano resistenza alla sua ascesa, all’ineluttabilità di quello che viene già definito “secolo cinese”, destinato a dare all’umanità un “futuro condiviso” ma all’insegna dell’egemonia del Dragone.
A questo scopo, la stabilità delle catene di approvigionamento e lo status quo nella globalizzazione economica – la prima messa in crisi dalla pandemia, il secondo dall’amministrazione Trump – restano interessi vitali per Pechino, tanto che Xi esorta a “non usare la pandemia come pretesto per la de-globalizzazione e il decoupling“. Per dedicargli un passaggio così esplicito il decoupling dev’essere temuto dalla leadership cinese come una minaccia concreta alle proprie ambizioni. E quindi, si conferma un’arma con cui l’Occidente può ancora far male, infliggere danni.
Quanto più Pechino riuscirà a tornare allo status quo ante Trump, quindi, tanto più sarà funzionale al suo disegno egemonico.
Quale sarà la risposta della nuova amministrazione Usa?
Come ha fatto notare Gordon Chang, le prime parole del presidente Biden nei confronti di Xi Jinping, poche ore dopo il suo giuramento, sono state un “affettuoso ricordo”, un tono ben lontano da quello usato in campagna elettorale, quando ebbe a definirlo “thug”, un delinquente, per non apparire meno duro del suo avversario agli occhi degli elettori.
“When I was with Xi Jinping – and I was on the Tibetan plateau with him – and he asked me in a private dinner, he and I, and we each had an interpreter, he said, ‘Can you define America for me?’, and I said yes and I meant it. I said I can do it in one word: possibilities. We believe anything is possible if we set our mind to it, unlike any other country in the world”.
Tradotto: tutto è possibile, anche una governance globale condivisa Usa-Cina, se solo lo vogliamo…
Che colga o meno nel segno la nostra interpretazione, come ha chiosato il South China Morning Post, “il riferimento di Biden al leader cinese sotto forma di ricordo, e privo di commenti negativi sui conflitti bilaterali, segna un cambio di tono dopo quattro anni di crescenti tensioni tra l’amministrazione dell’ex presidente Trump e Pechino”.
Dalle prime parole sembra che Biden voglia riservare per sé, nel suo rapporto con Xi Jinping, il ruolo di “poliziotto buono”, lasciando ai suoi collaboratori, dal segretario di Stato in giù, recitare la parte dei “poliziotti cattivi”.
Mentre giurava come 46esimo presidente degli Stati Uniti, il regime di Pechino annunciava sanzioni individuali nei confronti di 28 funzionari dell’amministrazione Trump e loro famigliari, tra cui l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton – non un trumpiano. Non si hanno ancora notizie di contromisure allo studio dell’amministrazione Biden, ma una portavoce del consiglio di sicurezza nazionale ha criticato le sanzioni cinesi come “una mossa controproducente e cinica”.
Poche ore prima, il Dipartimento di Stato, ancora guidato da Pompeo, aveva ufficialmente dichiarato di considerare genocidio e crimini contro l’umanità la repressione condotta dalla Repubblica Popolare Cinese, sotto la direzione e il controllo del Partito Comunista cinese, contro gli uiguri e altre minoranze nello Xinjiang. Una dichiarazione carica di conseguenze, probabilmente costata a Pompeo le sanzioni cinesi, rimaste al momento senza riposta.
A Pechino, però, non dovrebbe essere sfuggito che nella sua audizione di conferma al Senato, il nuovo segretario di Stato Antony Blinken ha detto di condividere la dichiarazione del suo predecessore e che lui stesso l’avrebbe adottata (“questo sarebbe anche il mio giudizio”). Dunque, a rigor di logica, anche lui dovrebbe incorrere nelle stesse sanzioni.
Ma non è l’unica linea di continuità con le politiche dell’amministrazione Trump che Blinken ha tracciato nel corso della sua audizione in Senato.
Blinken ha riconosciuto che l’ex presidente Trump “ha visto giusto nell’adottare un approccio più duro con la Cina”. “Non sono molto d’accordo con il modo in cui ha affrontato la questione in diversi aspetti, ma il principio di base era quello giusto e penso che sia molto utile per la nostra politica estera”, ha aggiunto.
Il nuovo segretario di Stato ha inoltre elogiato il ruolo dell’amministrazione Trump negli “Accordi di Abramo”, con i quali sono stati normalizzati i rapporti di Israele con alcuni importanti Paesi arabi, e nell’accordo tra Serbia e Kosovo. “Penso che ci siano un certo numero di cose, da dove mi sono seduto, che l’amministrazione Trump ha fatto oltre i nostri confini che applaudirei”.
Un riconoscimento che potrebbe sorprendere, se pensate al livello di scontro interno raggiunto nella politica Usa e alle accuse vomitate dai Democratici contro l’amministrazione Trump per qualsiasi cosa facesse. Non era proprio tutto da buttare, dunque. E forse, richiederebbe qualche rivalutazione e approfondimento in più dei nostri cosiddetti “esperti”, negli ultimi quattro anni intenti a fare da megafono acritico alle sirene che da oltreoceano si stracciavano le vesti, sostenendo che fosse tutto sbagliato e in preda al caos.
Ancora più rilevante, per un clintoniano come Blinken, aver riconosciuto che le precedenti strategie ottimistiche nei confronti della Cina erano fallaci.
“C’era un ampio consenso sul fatto che la liberalizzazione economica in Cina avrebbe portato alla liberalizzazione politica – questo non è accaduto. Non c’è dubbio che la Cina pone agli Stati Uniti la sfida più significativa di ogni altra nazione al mondo”.
Per uno della scuola clintoniana, che su quel nesso causale ha basato la sua apertura a Pechino, culminata con l’ingresso nel WTO nel 2001, un’ammissione non da poco.
Blinken ha anche dichiarato di sostenere l’appoggio diplomatico e militare a Taiwan, nel mirino di Pechino, ha messo in dubbio il futuro di Hong Kong come centro finanziario globale, e ha riecheggiato il presidente Trump nel criticare la Cina per aver ingannato il mondo circa l’origine del virus, contribuendo a diffondere il contagio. Ma ha detto di vedere anche aspetti di cooperazione nella relazione con la Cina, sui cambiamenti climatici e altri temi di interesse comune.
Dunque, la domanda ora è: nell’approccio dell’amministrazione Biden verso la Cina dobbiamo aspettarci una continuità, e in che dosi, con l’amministrazione Trump?
Sembrerebbe di sì dalle parole di Blinken, ma la risposta è più complicata.
Bisogna innanzitutto considerare che il nuovo segretario di Stato parlava al Senato, in occasione della sua audizione di conferma, quindi si trattava di non offrire ai Repubblicani pretesti per rallentare e ostacolare la sua nomina. Come si sa, al Congresso esiste un consenso bipartisan per un approccio più duro nei confronti di Pechino e Blinken non è uno sprovveduto, si rende conto che in ogni caso le politiche della precedente amministrazione rappresentano anche una opportunità, una leva negoziale per la nuova. Se Pechino vuole una de-escalation, un reset nelle sue relazioni con gli Usa, qualcosa dovrà concedere.
Nell’elaborare la sua strategia verso la Cina, l’amministrazione Biden dovrà tenere conto di due dati politici che al momento non appaiono reversibili. Come detto, al Congresso esiste un consenso bipartisan per la linea dura. E non solo sui diritti umani, ma anche nella politica commerciale e nella difesa.
Un consenso che rispecchia – e questo è il secondo dato – un sentiment anti-cinese molto forte, forse maggioritario nel Paese, a cui il presidente Trump ha dato pieno sfogo e rappresentanza politica. E che quindi non è destinato a rientrare nei prossimi anni.
Dunque, questo fronte non potrà essere lasciato scoperto dall’amministrazione Biden. Un semplice ritorno al passato con Pechino, come se la presidenza Trump non fosse mai esistita, è impensabile.
Non è detto però che ciò si traduca nella formalizzazione di una nuova “Guerra Fredda”, verso cui stava andando la precedente amministrazione. Con i media a favore e il pieno controllo della narrazione, la contrapposizione potrebbe restare delimitata nell’ambito dei diritti umani. Spunterà fuori ogni tanto qualche rapporto sugli uiguri o su Hong Kong e fioccherà qualche sanzione individuale. Solletico, mentre in altri campi il confronto potrebbe lasciare posto alla competizione e alla cooperazione.
Per usare le parole di Blinken: “Ci sono crescenti aspetti antagonistici nel rapporto [con la Cina], alcuni certamente competitivi e altri ancora cooperativi, quando è nel nostro reciproco interesse”.
Ci sono almeno tre motivi per cui, al di là delle intenzioni, la strategia dell’amministrazione Biden con la Cina può fallire, facendo scivolare le relazioni su una inerzia simile a quella pre-Trump, favorevole a Pechino.
Primo, il feticcio del multilateralismo, che già in passato si è spesso rivelato fine a se stesso, non un mezzo, e che la leadership cinese ha dimostrato di saper giocare a suo totale vantaggio, acquisendo un’influenza sempre maggiore nelle organizzazioni internazionali; muovendosi abilmente tra le pieghe e le imperfezioni di regole e accordi; guadagnando tempo con una strategia negoziale simile a una “tela di Penelope”.
Secondo, l’Europa, e in particolare la Germania, anello debole. Uno dei principali obiettivi dichiarati dell’amministrazione Biden è recuperare il rapporto con gli alleati europei, per costituire un fronte compatto che possa negoziare e competere più efficacemente con la Cina. Ottimo proposito. Peccato che il Vecchio Continente sia affamato di investimenti e l’economia tedesca troppo esposta alla Cina.
Biden chiederà all’Ue, e in particolare a Berlino, di superare il suo approccio mercantile alle relazioni con Pechino. Ma con il CAI questo approccio è stato appena ribadito. Mentre l’amministrazione Trump stava ponendo i tedeschi davanti ad un bivio (o noi o loro), il ritorno ad un approccio amichevole e paziente rischia di convincerli di poter continuare a “scroccare” la protezione Usa senza rinunciare alla loro proiezione strategica a oriente.
Insomma, i cinesi possono trascinare i negoziati per vent’anni e nel frattempo dividere il fronte, come hanno già dimostrato di saper fare.
Terzo, l’influenza globale degli Stati Uniti è direttamente proporzionale alla loro potenza economica e militare. Ma purtroppo, le politiche dei Democratici non sono più quelle di Clinton, che arrivava dopo Reagan. Le loro ricette economiche e sociali, influenzate dalla identity politics e dall’ideologia dei cambiamenti climatici, rischiano di deprimere l’economia e appesantire il debito federale, minando dall’interno la loro leadership.
Il tratto “filo-cinese” dell’amministrazione Biden, volente o nolente il ritorno alla politica dell’engagement che aveva contraddistinto soprattutto il primo mandato di Obama, potrebbe quindi restare sotto traccia, nascosto dietro una narrazione – per convenienze interne e complicità dei media – ostile a Pechino.
Ma dietro di essa, alla prova dei fatti l’impostazione dell’amministrazione Trump potrebbe venire capovolta: dal confronto alla coesistenza con la Cina (che è bene ricordarlo, dopo Kennedy i Democratici avevano sposato anche con l’Urss) e, al contrario, dal contenimento al confronto con la Russia.