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Il Green Pass non è sinonimo di libertà e men che meno di normalità

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Green Pass è sinonimo di libertà”, “ci riappropriamo della nostra libertà attraverso il Green Pass”. E ancora: il super Green Pass ci permette di difendere “con le unghie e con i denti” la normalità acquisita. No, queste frasi non sono tratte dal celebre “1984”. Tuttavia, a pensarci bene, non siamo così distanti dalla distopia descritta in quel libro. Lo dico subito per evitare qualunque equivoco: il Green Pass non è sinonimo di libertà e men che meno di normalità. Ma procediamo con calma. 

A leggere le dichiarazioni di politici e virologi, la fine dello stato di emergenza equivarrebbe alla fine delle limitazioni delle libertà. Ed è qui che casca l’asino. La fine dello stato di emergenza, sebbene auspicabile dopo due anni di pandemia, in questo momento sarebbe ancora più grave. Il Green Pass, nelle sue varie declinazioni, non c’entra nulla con lo stato di emergenza e, venuto meno quest’ultimo, sarebbe non solo assurdo ma anche pericoloso. Pericoloso perché non più “giustificato” dallo stato di emergenza. Decisamente rischioso perché accettato erroneamente come una decisione scientifica. Questa è la prima grande incomprensione. Giusto discutere della proroga dello stato di emergenza, ma per risolvere i veri problemi dobbiamo fare un passo indietro e chiarire alcune cose.

Innanzitutto, è fondamentale capire che il Green Pass è una misura puramente politica. Secondo, è necessario stabilire  una durata temporale conforme alla protezione vaccinale. Se non facciamo luce su quest’ultimo aspetto, il Green Pass diventa solo un pezzo di carta e, invece di proteggere il vaccinato, lo rende più vulnerabile, se non altro sul piano psicologico. Dovremmo poi chiederci se la ricetta italiana fatta di vaccinazioni e restrizioni delle libertà funzioni o meno. È necessario, con pragmatismo, riconoscere che il vaccino serve ma non può bastare. I dati raccolti dalla fondazione Hume danno ragione sia all’una che all’altra cosa. Il distacco del tasso di vaccinazione italiano con quelli nei Paesi dell’ex blocco sovietico è evidente e i risultati sul tasso di letalità nell’ultimo mese sono nettamente a nostro favore. Se però prendiamo in considerazione i Paesi occidentali e orientali, le cosiddette società avanzate, pur avendo l’Italia un tasso di vaccinazione decisamente alto, e se restringiamo il campo e analizziamo il tasso di letalità dell’ultimo mese, la nostra posizione scende e si stabilizza a metà classifica. 

Questi dati portano a un bivio. Imboccare la strada a senso unico dell’auto-glorificazione oppure cominciare a porsi dei dubbi, cercare altre risoluzioni e non escludere a priori quelle che abbiamo già sul tavolo. 

Infine, dopo due anni di pandemia, dopo due stagioni calde e fredde e dopo l’ennesima crescita dei contagi invernale non dobbiamo escludere la convivenza con il virus. Una convivenza diversa da quella odierna, caratterizzata da controlli continui e infinite limitazioni. Una normale convivenza, avendo ripristinato l’insieme delle libertà per i vaccinati e ridotte al minimo le limitazioni per i non vaccinati. Quante altre stagioni ci servono per capirlo? È tanto difficile ammettere che il problema non può essere quell’esigua percentuale di popolazione non ancora vaccinata? Un’alternativa deve esserci. L’importante è imboccare la strada giusta, anche se la più difficile, quella della convivenza con il virus, della libertà e del ritorno alla normalità, quella vera.