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Il jab di Trump fa barcollare il regime iraniano: rottura con la popolazione irrimediabile

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E media mainstream allo sbando

Avrebbe potuto essere un inizio 2020 glorioso per la Repubblica Islamica, con fino a quattro ambasciate Usa in Medio Oriente sotto assedio (gli attacchi che stava pianificando Qassem Soleimani prima di essere eliminato), invece si è trasformato in un incubo. Non solo Teheran ha perso lo stratega della “mezzaluna sciita” (Iraq, Siria, Libano, Yemen), un comandante autorevole e carismatico, proiettato verso la presidenza, ma è stata costretta ad una rappresaglia-farsa che ha mostrato al mondo e agli avversari tutta la sua debolezza e che si è conclusa con una disfatta. Non si è potuta permettere di fare vittime “nemiche”, nel timore di scatenare una reazione Usa ancora più devastante, ma ha fatto strage di civili (in gran parte iraniani), abbattendo un volo di linea ucraino. Nel migliore dei casi per un errore da panico per un’immediata risposta Usa (il che dimostrerebbe che il suo raid non era affatto “concordato”)… o forse – ipotesi inquietante ma non ancora da escludere – su quell’aereo c’era qualcuno da non lasciar partire. Troppo schiaccianti le prove, e ormai di dominio pubblico, per continuare a negare e depistare. Meglio, è stato forse il ragionamento, ammettere il “tragico errore” per non alimentare accuse di un abbattimento doloso.

L’uccisione di Soleimani ha colto di sorpresa il regime, gettando la leadership iraniana nel caos: dall’essere certa della debolezza del presidente Trump e degli Stati Uniti nella regione, in pochi minuti ha dovuto prendere atto della sua estrema debolezza, di quanto fosse ristretto il menu di opzioni a sua disposizione per rispondere al colpo dell’odiato nemico. E di quanto sia imprevedibile Trump, che può passare dal non reagire, come nel caso dell’abbattimento di un drone quest’estate, ad una reazione diretta al cuore del potere iraniano, un jab da ko.

Non solo la debolezza del regime rispetto ai suoi avversari esterni. Le immagini di queste ore da Teheran e da altre importanti città iraniane confermano anche la sua profonda crisi interna. La morte di Soleimani non ha affatto “ricompattato” la popolazione al fianco del regime in una fiammata nazionalista, né garantisce a quest’ultimo una “crescente popolarità”, come ancora oggi si legge nell’editoriale in prima pagina del Corriere della Sera. Un’analisi che sentiamo ripetere con troppo automatismo ogni qual volta Washington cerca di ristabilire la propria deterrenza nei confronti di stati canaglia e dittature con azioni militari o sanzioni economiche. Anzi, ha rivelato la vulnerabilità del regime incoraggiando, semmai, le proteste.

È stato un inizio anno a dir poco difficile anche per i nostri media mainstream. Di fake news in fake news: da quel “pazzo disturbato” di Trump che avrebbe scatenato la terza guerra mondiale al videogioco presentato come filmato dell’uccisione di Soleimani; dall’addio del Regno Unito all’Erasmus agli incendi in Australia provocati dal global warming. Hanno persino dato credito alla propaganda dei Pasdaran sugli “80 morti” nel raid di rappresaglia. Pretendono di denunciare e combattere le fake news, ma sono i primi a diffonderle per pigrizia e pregiudizio ideologico.

Per Repubblica gli Stati Uniti sono una dittatura (Scalfari) e per il Corriere l’Iran sarebbe un interlocutore più affidabile (Romano). Qualche giorno fa il Corriere si chiedeva se Trump possa essere incriminato per aver ordinato di uccidere Soleimani con un drone. Non risulta che in otto anni si sia mai chiesto se potesse essere incriminato Obama per il centinaio (almeno) di civili uccisi in altrettanti attacchi con droni… Ma soprattutto, si sono mai chiesti se fosse incriminabile Soleimani, o almeno quanti militari e civili sono stati uccisi dagli attentati e attacchi da lui ordinati?

Tranne rare eccezioni, la nostra stampa “antifascista”, che vede il fascismo ovunque, pare non sappia distinguere una manifestazione popolare, come quelle di ieri, da un’adunata di regime come quella per funerali di Soleimani.

Altro che “martire” ed “eroe”, come veniva presentato dai nostri media che si facevano impressionare dalla calca di gente e dalle lacrime di Khamenei ai suoi funerali. Come avevamo ricordato all’indomani della sua uccisione, il comandante delle Forze al Qods era visto nel suo Paese per lo più come il volto più disumano del regime, l’emblema di una sanguinaria repressione interna e dello sperpero delle risorse nazionali in avventure all’estero. “No Gaza, No Libano, la mia vita per l’Iran”, è uno degli slogan più comuni nelle strade iraniane. Slogan contro il regime, contro Soleimani e Khamanei (entrambi “assassini”), addirittura a favore dello Shah Reza Pahlavi.

In ogni caso, l’ammissione ufficiale del regime, il dissolversi delle sue bugie e depistaggi dei giorni scorsi sull’abbattimento “per errore” dell’aereo civile ucraino nella notte del raid di risposta agli Usa, provocando 176 morti in gran parte iraniani, ha riacceso le proteste che vanno avanti ormai da mesi. Un “errore” che sommato ad una repressione durissima (oltre mille morti e migliaia di arrestati, secondo le stime, e un lungo shutdown di internet), può rappresentare un defining moment: la definitiva, irrimediabile rottura tra il regime e la nazione persiana, quella crepa nel muro che rischia di far venir giù all’improvviso tutto l’edificio, come accadde all’Urss tra l’89 e il 91.

Il presidente Trump si è schierato con forza, come raramente nei suoi tre anni di presidenza, al fianco dei manifestanti iraniani in due tweet pubblicati anche in farsi:

“Al coraggioso e a lungo martoriato popolo dell’Iran: sono stato con voi dall’inizio della mia presidenza e la mia amministrazione continuerà a stare con voi. Stiamo seguendo le vostre proteste da vicino e siamo ispirati dal vostro coraggio”.

E ha avvertito:

“Il governo dell’Iran deve consentire ai gruppi per i diritti umani di monitorare e riportare i fatti dal terreno sulle proteste in corso da parte del popolo iraniano. Non ci può essere un altro massacro di manifestanti pacifici né un blocco di internet. Il mondo sta guardando”.

Altrettanto chiaro il segretario di Stato, Mike Pompeo, che pubblicando sul suo profilo Twitter uno dei video delle proteste in corso ha dichiarato:

“La voce del popolo iraniano è chiara sono stanchi delle bugie, della corruzione, dell’incapacità e della brutalità dei Guardiani della Rivoluzione islamica sotto la cleptocrazia Khamenei. Noi stiamo con il popolo iraniano che merita un futuro migliore”.

L’Unione europea, quella del diritto e dei diritti, che sanziona Polonia e Ungheria, ovviamente, non pervenuta.

Ma le prese di posizione del presidente Trump e del segretario Pompeo, così come l’eliminazione di Soleimani, non vanno travisate o sovrastimate. Si tratta di approfittare del momento di debolezza e confusione della leadership iraniana – e il passo falso dell’arresto per alcune ore dell’ambasciatore britannico è un ulteriore segnale – per esercitare su di essa ulteriore pressione. Se alle sanzioni economiche si aggiungono le proteste popolari, tanto meglio, ma l’obiettivo della strategia della “massima pressione” adottata dall’amministrazione Trump non è il regime change. Gli obiettivi restano il definitivo abbandono da parte di Teheran del programma nucleare e delle attività destabilizzanti nella regione attraverso le sue milizie. Se domani mattina il regime fosse pronto a sedersi al tavolo del negoziato su tali questioni, troverebbe Trump pronto a offrire generose aperture e prospettive promettenti.

Certo, se invece il regime di Teheran dovesse insistere nelle sue ambizioni atomiche e imperialiste, insostenibili sia dal punto di vista economico che geopolitico, lo farebbe a suo rischio e pericolo e il regime change sarebbe una conseguenza da mettere nel conto, per quanto non “cercata” da Washington.