1. C’è stata una stagione della politica italiana caratterizzata dalla presenza di grandi alberi di lenta crescita e di durata secolare, che scelti come simboli, prima da un partito, poi da una coalizione avrebbero dovuto segnare una lunga vita, mentre invece sono ormai consegnati ai ricordi di coloro che ne sono stati protagonisti o spettatori: la Quercia di Achille Occhetto e l’Ulivo di Romano Prodi. Nel vuoto creato dal tramonto inglorioso della Dc e del Psi, travolti da Tangentopoli, due alleanze – una di centro, Patto per l’Italia, con Ppi e Segni, e una altra di sinistra, Alleanza dei progressisti, con il Pci rifondato come Pds – sfidano l’accoppiata messa in campo da Silvio Berlusconi, il Polo della libertà (Forza Italia/Lega Nord) e il Polo del Buon Governo (Forza Italia/An), alla luce della legge elettorale maggioritaria, con correzione proporzionale, del 1993, il Mattarellum. Una legge, questa, che sostituiva quella proporzionale durata per oltre quarant’anni, a cominciare dal 1948, segnando una netta soluzione di continuità rispetto al passato, tanto da essere assunta come tale da attuare il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, senza peraltro alcuna modifica costituzionale. E, invero, essa condizionerà le elezioni politiche successive, dando vita ad un sistema bi-polare pluripartitico – capace di assicurare una alternanza al governo di coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra – destinato a restare un carattere dominante del sistema politico italiano, anche dopo la sostituzione del Mattarellum col Porcellum, fino al 2013.
Dopo la sconfitta del 1994, fu naturale l’apertura di una consultazione fra le formazioni di centro e di sinistra che le avevano affrontate separatamente, che sfociò, prima, nell’appoggio al Governo Dini, poi, nella nascita della coalizione all’insegna dell’Ulivo. Questa, guidata da Romano Prodi contava in occasione dell’elezioni del 1996 ben tredici sigle (Pds, Movimento per l’Ulivo, Ppi, Socialisti italiani, Patto Segni, Alleanza Democratica, Federazione dei Verdi, la Rete, Pri, Federazione dei liberali, Federazione laburista, Movimento dei Comunisti Unitari, Cristiano Sociali). Come si vede una composizione quantitativa notevole, tale da costringere ad una distribuzione centralizzata dei collegi uninominali, con una sostanziale elusione della rispondenza alla base elettorale, debolezza di origine che avrebbe prima minato la tenuta della maggioranza uscita vincente, poi contribuito alla stessa fine dell’Ulivo. Ma la nota qui rilevante riguarda la composizione qualitativa, data la massiccia presenza di sigle definibili di centro-sinistra, ma senza affatto identificarsi con la sinistra storica impersonata per antonomasia dal Pds.
L’Ulivo vince le elezioni del 1996, approfittando della diserzione dal centro-destra della Lega Nord, dando vita alla sequenza dei Governi Prodi, D’Alema, Amato, nel corso dei quali ci sono alcune significative modifiche nella composizione dell’Ulivo. Si aggiungono Rinnovamento italiano, l’Udeur, il Partito dei comunisti italiani (PdCi) e il Movimento Repubblicani europei (Mre); ma il Pds diventa Democratici di sinistra (Ds) con l’adesione della Federazione laburista e dei Cristiani sociali; il Ppi insieme al neofondato Rinnovamento italiano e ai Democratici, eredi del Movimento per l’Ulivo, costituiscono Democrazia è libertà-La Margherita; i Socialisti italiani danno vita ai Socialisti democratici italiani (Sdi).
La composizione quantitativa resta molto ampia, sì da obbligare alla stessa predeterminazione centralizzata della distribuzione dei collegi uninominali; ma quella qualitativa denuncia una progressiva concentrazione a favore dei due nuovi soggetti, a sinistra sui Ds e al centro sulla Margherita, con un tendenziale bipolarismo all’interno dell’originario Ulivo, che esplicita al tempo stesso una sorta di divisione di compiti rispetto all’elettorato c.d. progressista, con riguardo alla classe operaia e, rispettivamente, ai ceti medi. E sono i Ds e la Margherita a guidare l’Ulivo nelle elezioni politiche del 2001, con candidato premier Francesco Rutelli, non per nulla presidente della Margherita, sì da evidenziare la rilevanza data al centro della coalizione; ma senza successo contro l’alleanza del centro-destra, sempre guidata da Berlusconi, che, sotto la comune denominazione di Casa delle libertà, ha recuperato la Lega Nord.
Le successive elezioni politiche del 2006 si svolgono con una nuova legge elettorale, Calderoli (soprannominata il Porcellum), che introduce un sistema elettorale diametralmente opposto, interamente proporzionale con premio di maggioranza e soglie di sbarramento per liste e coalizioni. L’Unione, sotto la guida di Romano Prodi, componenti principali i Ds e la Margherita, vince di misura la sfida contro la Casa delle libertà, condotta da Silvio Berlusconi. Ma, poi, Ds e Margherita, danno vita al Partito Democratico (Pd), con un cambio radicale di strategia, perché, confluendo in unico partito la sinistra storica e il centro progressista, quest’ultimo finisce per coprire da solo tutto lo spazio di centro-sinistra, con una vocazione maggioritaria, sì da rendere superflua ogni coalizione aperta sull’estrema sinistra e sulla stessa area centrista progressista. Questa affermazione di auto-sufficienza è confermata dalla decisione del Pd di presentarsi da solo con Italia dei valori alle elezioni politiche del 2008; col che lo stesso percorso coltivato dal fondatore dell’Ulivo, nato come coalizione, pensato come Federazione, realizzato come Partito unico, viene compiuto. Non senza pagare il costo di scoprirsi proprio sull’area centrista moderata, come le elezioni politiche del 2008 rileveranno: il Pd, presentatosi con solo l’Italia dei valori, sotto la guida di Walter Veltroni, viene sconfitto dalla Casa della libertà e dalla Lega Nord, sempre con la leadership di Berlusconi.
La situazione si rovescia con le elezioni politiche del 2013, dove la coalizione di centro-sinistra, guidata da Per Luigi Bersani, con protagonisti il Pd e la Sinistra ecologia e libertà (Sel), batte di stretta misura quella condotta da Silvio Berlusconi, con accanto due soggetti destinati a crescere, la già presente Lega Nord e i neocostituiti Fratelli d’Italia; senza peraltro avere la maggioranza necessaria per fare il governo. A mutare radicalmente è il quadro bipolare pluripartitico, per il cospicuo successo dei 5 Stelle, un movimento nato come anti-sistema, trasversale, non collocabile in un continuum sinistra-centro. Così i Dem, privi ormai di una sponda al centro che certo non poteva essere costituita dai 5 Stelle – come risulterà evidente dal fallito tentativo dello stesso Bersani – si ritrovano a vivere al loro interno fra una anima tradizionale di sinistra e una anima centrista, che risulterà vincente con l’avvento al governo di Matteo Renzi, che riesce a portare il Pd al 40 per cento nelle elezioni europee del 2014.
2. Pare realizzata la sfida di un Pd capace di una vocazione maggioritaria, sia pure ottenuta con una decisa politica caratterizzata dalla discontinuità rispetto a quella che ne aveva segnato la nascita, cioè tale da coltivare progetti e programmi fino ad allora propri del centro-destra, come tipicamente esemplati nel Jobs Act. Il che non poteva che comportare una rottura dell’equilibrio interno, con la scissione a sinistra di Leu, guidata dallo stesso ex segretario Bersani; nonché un riflusso del precedente sfondamento al centro, a seguito del risultato negativo del referendum confermativo della riforma costituzionale patrocinata in prima persona dallo stesso Renzi, con la successione dello scialbo Gentiloni. In questa caduta di credibilità del Pd, i movimenti populisti continuavano a scalzarne la base elettorale, già 5 Stelle, ma sempre più anche la nuova Lega, cresciuta a dimensione nazionale; peraltro con una diversità sostanziale, solo la Lega risultava avere una precisa identità di destra. Non per nulla i 5 Stelle si ritenevano in partenza del tutto alieni da una puntuale collocazione sulla linea sinistra/destra, con una indisponibilità a qualsiasi alleanza, che, però, si rivelerà successivamente come una disponibilità ad allearsi sia con la Lega che con il Pd.
La conferma viene data traumaticamente dalle elezioni politiche del 2018, tenute con la nuova legge elettorale del 2017, il Rosatellum-bis, un mix di maggioritario e di proporzionale, che rafforza la centralità dei partiti nella selezione delle candidature. A conferma della sua caduta di credibilità il Pd viene largamente svuotato, con meno del 19 per cento, senza peraltro alcun significativo successo da parte di Leu, fermo a poco più del 3 per cento: questo è tutto quello che l’erede dell’Ulivo, assurto a contenitore unico del centro-sinistra, porta a casa, dopo aver dilapidato un intero patrimonio elettorale. Certo, neanche il centro-destra può cantare vittoria, dato che pur avendo raggiunto circa il 37 per cento non la maggioranza parlamentare – qui, fra l’altro, si è verificato lo stesso fenomeno di erosione del classico partito leader, nel senso che come il Pd anche Forza Italia, non più guidata da Berlusconi, cede il primato alla Lega, mentre si affaccia un protagonista destinato a crescere, Fratelli d’Italia. A distribuire le carte il vero vincitore, 5 Stelle, con un terzo dei voti espressi, con cui si realizza la successione sotto lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, da un Governo 5Stelle/Lega ad uno 5Stelle/Pd. Senza entrare in una vicenda peraltro ben nota, c’è da osservare la posizione assunta dal Pd, dopo la sua partecipazione al governo, sempre tesa a farla apparire come paritaria, nonostante la sua netta inferiorità in termini di presenza parlamentare; e, soprattutto a far credere ad una tendenziale omogeneità programmatica, nonostante la vera e confessata ragione della sua disponibilità a far maggioranza coi 5 Stelle sia stata quella di evitare una nuova consultazione elettorale che, con la legge elettorale vigente, avrebbe consegnato il Paese ad una destra “sovranista”. Sulla base di una lettura per cui la secca perdita elettorale sarebbe stata riconducibile alla diserzione della sua base classica, il Pd al governo accentua la sua attenzione sulla sinistra, causa non ultima della scissione provocata da Renzi, con la costituzione di Italia Viva.
Ora il Pd, secondo la voce del suo segretario, Nicola Zingaretti, da una parte rivendica la capacità di rappresentare l’intero centro-sinistra, non senza recuperare Leu e Italia viva, con la riproposizione della vocazione maggioritaria, quindi una auto-sufficienza, che sembrerebbe suonare retorica data la attuale rendita elettorale, ma che viene giustificata in ragione dell’essere lo stesso Pd la base della tenuta democratica della Repubblica, cioè il titolare della legittimazione costituzionale più piena, addirittura a prescindere da qualsiasi conferma proveniente dalle urne. Dall’altra parte, nega realisticamente tale auto-sufficienza, coll’affannarsi a sollecitare una union sacrée coi 5 Stelle, con un sovrapporsi di ragioni tattiche (fermare la destra sovranista) e strategiche (tendenziale omogeneità dei programmi).
Questo, però, importa una configurazione pro domo propria dei 5 Stelle, dando per scontato che, in questa alleanza condotta al limite di una quasi identità, il movimento di Grillo si porterebbe dietro una base elettorale già in disgregazione; addirittura quella stessa base che avrebbe abbandonato il Pd, il quale, quindi la recupererebbe così indirettamente.
Tutto questo si è riflesso sul piano delle alleanze per le elezioni regionali, dove il Pd avrebbe voluto un 5 Stelle pronto a sacrificare la sua presenza per la conservazione delle regioni “rosse” in pericolo, senza nulla concedere sui candidati, proprio solo per regioni tattiche, quelle già menzionate di fermare la destra “sovranista”; nonché sul piano stesso del referendum, con l’evidente spaccatura all’interno dello stesso Pd. Giustamente Zingaretti ha tenuto fermo il sì, perché era prezzo convenuto per fare il governo, peraltro condiviso dalla Camera nella sua quasi totalità, senza alcuna reazione pubblica, che certo, sollevata ora, deve essergli sembrata del tutto eccessiva, perché il referendum era stato richiesto da una sparuta pattuglia di parlamentari di destra, senza di cui la partita sarebbe già bella finita. Se si vuole Zingaretti ha sbagliato nel mettere al primo posto come contropartita le legge elettorale, un sistema proporzionale puro, con soglia di sbarramento al 5 per cento, non solo e tanto per la ovvia contrarietà di Italia Viva e di Leu, ben sotto tale percentuale, quanto degli ex ulivisti, guidati dal suo capo nobile, Prodi.
Per quando si dica dai duri e puri che il “sì” finirebbe per alterare l’equilibrio democratico del Paese, creando addirittura un percorso privilegiato per un governo autoritario, il problema non è qui. Anzitutto c’è chi teme che il “sì” finirebbe inevitabilmente per indebolire il progetto strategico coltivato di ingabbiare il centro-destra, dato comunque vincente alle elezioni politiche del 2023, qualunque sia la legge elettorale; e lo farebbe delegittimando sostanzialmente questo Parlamento, che si vorrebbe, invece, far durare per eleggere il nuovo presidente della Repubblica e definire e gestire in prima battuta i progetti del Recovery Fund. Ma la scelta del no da parte degli ex ulivisti riguarda proprio la legge elettorale proporzionale, tale da negare quella legge maggioritaria posta alla base non solo dell’Ulivo, ma anche del Pd, da cui appunto la sua vocazione maggioritaria. Se anche è altamente probabile che i “sì” vincano, molti “no” potranno condizionare la confezione della futura legge elettorale.