Succede, a volte, che anche nella mente di coloro che aderiscono toto corde ai valori fondanti del liberalismo occidentale si insinuino idee “eretiche”, magari ispirate da un’analisi realistica (o, se si preferisce, non ideologica) della realtà politica e sociale contemporanea.
Provo allora a formulare una tesi che molti giudicheranno senz’altro scandalosa e degna di essere cassata senza troppi commenti. La tesi, in sostanza, è la seguente. Se si escludono Europa, Nord America e Giappone, nella stragrande maggioranza delle altre nazioni del nostro pianeta la repressione della dissidenza politica può essere biasimata solo in linea di principio, tenendo però presente che essa si rivela spesso necessaria per evitare che un certo Paese precipiti nell’anarchia e nella guerra civile.
So bene che una simile affermazione è un pugno nello stomaco per chi considera Isaiah Berlin, Karl Popper (e molti altri, ovviamente) quali maestri ineguagliabili della filosofia politica. E desidero ribadire che non considero affatto superate le loro idee.
Si dà il caso, tuttavia, che tra idee e realtà esista sempre uno iato difficile da colmare, soprattutto quando gli strumenti dell’analisi teorica devono confrontarsi con la concretezza dei fatti e degli avvenimenti. Non parlo – ed è importante ribadirlo – di fatti e avvenimenti ormai consegnati alla storia, poiché in quel caso il giudizio è rivolto al passato.
Intendo, invece, eventi che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi, qui e ora, eventi che risentono inevitabilmente delle passioni riferite a un presente del quale è sempre difficile decifrare il significato. Ammesso, tra l’altro, che il significato sia uno soltanto. Come tutti sappiamo, tale contesto è dominato da un continuo “conflitto di valori” di cui molto hanno scritto Max Weber e il già citato Isaiah Berlin.
L’opinione pubblica nei Paesi occidentali è abituata a pensare che i golpe militari siano, in ogni caso e comunque, un male da evitare. Naturalmente vi sono ottime ragioni a sostegno di questa tesi. Il golpe, per definizione, rappresenta una sospensione della democrazia e un’assunzione del potere da parte di forze non legittimate sul piano elettorale.
Quasi sempre inoltre, esso si abbina alla violenza esercitata nei confronti di vasti strati della società. Violenza che si manifesta con retate di oppositori, controllo immediato della tv e di ogni altro organo d’informazione, presenza di carri armati e soldati nelle piazze.
Tutto questo – inutile rimarcarlo – ripugna alle nostre anime sensibili ai diritti umani e alla sacralità del consenso popolare. Ogni tanto qualcuno rammenta opportunamente che, a ben guardare, Hitler giunse al potere conquistando la maggioranza dei voti. Ma, tant’è, l’obiezione viene giudicata trascurabile.
Eppure, è a mio avviso ragionevole argomentare a favore del golpe quando le circostanze fanno capire che non esistono alternative plausibili. Il caso egiziano è a tale proposito emblematico. La morte di Giulio Regeni ha indotto molti – in Italia e altrove – a criticare duramente Al-Sisi e la sua giunta e a chiedere che nel più grande Paese arabo venga subito ristabilita la democrazia.
Sì, ma quale? Costoro dimenticano – e non si capisce sino a che punto siano in buona fede – che un Egitto in mano allo scomparso Mohamed Morsi avrebbe rappresentato un pericolo ben maggiore, a dispetto del sostegno (almeno iniziale) fornitogli da Hillary Clinton, all’epoca segretario di Stato. L’indignazione per le politiche repressive di Al-Sisi è, sempre in linea di principio, giustificata. Chi s’indigna trascura però un elemento fondamentale. E cioè che, senza l’avvento dei militari, oggi avremmo la più importante nazione del mondo arabo dominata dai Fratelli Musulmani.
C’è però un altro caso scottante che domina da tempo le prime pagine dei giornali e i notiziari televisivi. Parlo della Turchia, nazione di fondamentale importanza nello scacchiere mediterraneo, in Medio Oriente e nella struttura della Nato. Come tutti sanno Erdogan è riuscito, con un’abilità che gli va riconosciuta (e con qualche aiuto esterno), a neutralizzare i vertici militari d’ispirazione kemalista che per decenni avevano garantito, oltre alla laicità del Paese, la sua sicura collocazione nel campo occidentale.
Recentemente, quando gli è stato chiesto quale fosse a suo avviso la chiave per risolvere i problemi turchi, il “sultano” di Ankara ha risposto “islam, islam, islam”. Proprio così, e senza la benché minima ombra di dubbio, alla faccia dell’iniziale moderazione con cui il suo partito AKP si era presentato anni fa sulla scena politica interna e internazionale.
In una situazione simile credo non sia un peccato sperare – e uso intenzionalmente tale verbo – che qualche fiammella di kemalismo sia sopravvissuta nelle forze armate nonostante la profonda opera di eradicazione messa in atto da Erdogan. E che essa si traduca in un colpo di stato simile a quelli avvenuti in passato, e sempre condannati dai governi occidentali.
Si tratta, ovviamente, solo di una speranza che molti deprecheranno. E a questo punto non è chiaro se essa possa tradursi in atti concreti. La succitata eradicazione è stata infatti profonda e capillare. Ma, come si diceva all’inizio, mi sembra chiaro che i golpe militari non sempre sono il male assoluto, checché ne pensino le anime belle a Roma, Washington e Bruxelles.
Turchia ed Egitto sono, tra l’altro, solo due esempi tra i più noti. In realtà lo stesso ragionamento può essere applicato in una miriade di contesti, partendo da monarchie ed emirati arabi per finire con le Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale.
La repressione del dissenso, insomma, è di per sé un fatto esecrabile, ma può rivelarsi utile quando si hanno elementi per ritenere che altri approcci genererebbero danni ben peggiori.
Capisco che le obiezioni a un simile modo di ragionare siano tantissime e, nella maggior parte dei casi, addirittura scontate. Resta però l’impressione che sia meglio chiudere un occhio sui principi quando l’alternativa disponibile è soltanto il mero caos.