Avevo appena licenziato per Atlantico un articolo, che me lo sono ritrovato nel c.d. manifesto dei sovranisti, sì da sentirmi anch’io investito dallo scandalo sollevato da tutte le forze progressiste, con, ad orchestrare le rabbie dei mass media progressisti, un Letta che, perso ormai ogni referente non solo tattico ma anche e soprattutto strategico, cerca di salvarsi con radicalismo protestatario spinto all’insegna dello slogan “morire abbracciati alla bandiera del progetto di legge Zan”. No, non vorrei che credeste che, in uno sfogo megalomane, io pensi sul serio di aver dato un qualche contributo al manifesto; ma vorrei far capire ai miei due o tre lettori, che ora mi sento anch’io imbragato come “sovranista”, senza sapere bene quale sia il senso vero di questo termine usato dalla nostra intellighenzia (non necessita aggiungere di sinistra, perché, cosa stranota, non ce n’è una di destra), dopo che quello di populista è stato accantonato, per rispetto all’alleato del cuore, i 5 Stelle, nel loro faticoso e incerto passaggio da movimento a partito.
I nostri amici, che, a furia di strapparsi i cappelli per ogni evenienza sgradita corrono il rischio di restare completamente calvi, si sono accontentati di leggere le firme per considerare eresia pura il testo del documento, con conseguente condanna senza appello. Forse leggendolo attentamente avrebbero colto alcuni spunti di cui tener conto, perché l’attestazione di fede perinde ac cadaver ad una mera endiadi “europeismo e atlantismo” priva di alcun chiaro contenuto è ben lungi dall’assicurare un futuro credibile alla nostra Ue.
Per quanto riguarda l’europeismo, credere che sia sufficiente eliminare il voto unanime nel Consiglio, riservando il veto ad una minoranza costituita da un certo numero di Stati e da una certa percentuale di popolazione, per poi dilatare al massimo il potere del Parlamento europeo, è del tutto illusorio, a prescindere dal poterlo realizzare in quattro e quattro otto, dato che è in gioco il punto di equilibrio fra due sovranità, quella comunitaria e quella delle singole nazioni.
Invece di indignarsi per l’uso che fa il manifesto del termine “Superstato”, che sarebbe nell’intento degli europeisti realizzare, si riportasse il discorso nei termini di un confronto fra federalismo e confederalismo, non per restare schiavi di questi termini, ma per sottolineare come il bilanciamento dei poteri non può prescindere dall’esistenza di Stati-nazione, con una loro voce che prescinda dalle differenze di dimensione e di popolazione. Persino uno Stato rispondente in pieno al modello federale, gli Usa – peraltro in ragione di una storia e di una lingua comune, tale da permettere il melting pot – il presidente viene eletto formalmente dai grandi elettori, distribuiti fra gli Stati, senza un puntuale rapporto col numero di voti raggiunti in ciascuno di essi, ma soprattutto il Parlamento è composto dal Congresso e dal Senato, qui con due rappresentanti per ciascun Stato, organo che è del tutto determinante nel governo del Paese.
Se questo è un problema imprescindibile di ingegneria costituzionale, ce n’è un altro ancora più grave, cioè che cosa costituisca l’identità dell’Europa, che possa essere condivisa da tutti gli Stati, che sottolineo ancora, sono Stati-nazione, senza che serva demonizzare questa parola associandola alla degenerazione nazionalistica, che, fra l’altro, ha caratterizzato allo stesso tempo destra e sinistra, sfociando in terribili dittature. Il manifesto si pronuncia a favore di un recupero dell’eredità “giudaico-cristiana”, con una espressione che mette al sicuro da ogni accusa di antisemitismo. Ora non occorre perdersi in disquisizioni linguistiche, è la storia – quella che ovunque, dal Mediterraneo al Baltico si studia a scuola – a fornirci la risposta, è la comune appartenenza alla fede e alla cultura cristiana, che non ha certo impedito lotte fratricide e forti varianti teologiche. Senza dubbio la fede ha subito l’effetto di una forte secolarizzazione, ma lo stesso non si può dire della cultura, che, fra l’altro parla ancora con una monumentalità unica eretta nel segno della croce. Non basta una bandiera e un inno, ma neppure il moltiplicarsi delle istituzioni, per liberare la Ue dall’accusa di essere una burocrazia tecnocratica, perché questa idea è radicata nella gente, per cui la Unione europea è solo una entità geografica, dispersa fra Bruxelles e il Lussemburgo, nelle terre degli gnomi, quelli che creano e distruggono le fortune anche di interi Paesi.
Qual è il centro nevralgico di questa cultura? Sempre secondo il manifesto è la famiglia c.d. tradizionale, quella eterosessuale, perché è lì che può avvenire la riproduzione fisica e civile delle generazioni, non per nulla la Chiesa italiana, pur con una guida ecumenica come quella di Papa Francesco, si è sentita toccata, come Stato concordatario, da una campagna all’insegna del disegno di legge Zan, che ben lungi dall’avere una intenzione e portata anti-discriminatoria nei confronti degli orientamento sessuale, costituisce un testo ideologico di assorbimento della famiglia eterosessuale nel vuoto indistinto delle famiglie arcobaleno. Forse qualcuno avrà notato come nelle recenti adunate gay, la parola d’ordine, riecheggiata da una piazza all’altra, era “Andiamo oltre il progetto di legge Zan”.
Ora, che le istituzioni europee vadano a traino di queste spinte, pensando di compensare un deficit di governance, con una versione radicalizzata all’estremo dei c.d. diritti civili, in una versione individualistico-egoista di una assoluta e incondizionata realizzazione del proprio ego, appare una forzatura non condivisibile. Non conosco il testo esatto della contestata legge Orban, ma ammettiamo che, come dice chi la critica, vieti la propaganda omossessuale, perché dovrebbe essere promossa e incentivata come vorrebbe fare il progetto di legge Zan con l’istituzione di una giornata da celebrare nelle scuole (di ogni ordine e grado)? Mi dispiace ma l’eterosessualità, secondo la maturazione naturale, resta e deve restare la via del tutto privilegiata, sempre educando al rispetto del diverso, ovunque e comunque si presenti, mentre una sessualità diversa non può costituire una alternativa di pari rilevanza, cosa che di per sé disturberebbe la fisiologica maturazione della propria identità sessuale.
Può essere illusorio, come fa il manifesto, pensare di incentivare una svolta demografica che sia di per sé tale da costituire una qual sorta di barriera naturale all’immigrazione, almeno sul breve-medio periodo, ma è certo che un costante flusso immigratorio fuori controllo tende a modificare la base etnica della nostra popolazione, nel senso della lingua, tradizione, cultura di appartenenza, perché questa immigrazione è difficilmente integrabile proprio laddove sarebbe più necessario, nella credenza e nei costumi, essendo l’originaria formazione musulmana quasi indelebile alla prova dei fatti. Fra l’altro, è del tutto contraddittoria la giustificazione della sua necessità che ne viene offerta, cioè di farsi carico dei mestieri sporchi e pericolosi non più appetiti dagli italiani, che, quindi verrebbero indirizzati verso quelli sofisticati richiesti dal Next Generation EU. Tanto che si denuncia che a tali mestieri gli immigrati siano costretti; mentre, al tempo stesso, si costata che gli italiani non siano affatto preparati per i nuovi compiti.
Il manifesto dei sovranisti può ben essere criticato per un eccesso di vis polemica che sembra scartare a priori l’attesa alluvione critica, anzi punta a suscitarla; ma richiama pur sempre l’attenzione su alcune autentiche fragilità della prospettata ricostruzione comunitaria, chiamata alla durissima prova di una ripresa post-pandemica, allorquando la solidarietà creata dalla comune sfida sanitaria verrà meno, facendo riemergere differenze e divergenze di fondo alla fine della sospensione dei criteri di Maastricht, che, scritti come sono in un Trattato, richiederebbero un ben difficile procedimento di modifica.