Un nuovo gruppo jihadista, o più probabilmente nuovo solo nella sigla, legato o ispirato all’Isis, sarebbe il responsabile del massacro di Pasqua a Colombo, capitale dello Sri Lanka: quasi trecento morti ammazzati e centinaia di feriti in una serie coordinata di esplosioni che hanno devastato chiese e alberghi che ospitavano cristiani in preghiera e turisti. Niente di particolarmente sorprendente, purtroppo, bensì solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi contro i cristiani, una vera e propria guerra di religione, una jihad in corso da anni in tutti i continenti, dal Medio all’Estremo Oriente, dall’Africa al Sudamerica. Stavolta, complici le dimensioni dell’attacco e il numero di vittime, ma anche la penuria di notizie durante le festività pasquali, l’eccidio ha trovato spazio nelle headlines di grandi network e giornali.
È sintomatico dell’epoca in cui viviamo che per evitare di affrontare le scomode verità del nostro tempo si tenti di aggirarle, di ingannarle, semplicemente cancellando dal nostro vocabolario le parole che vi fanno riferimento e che le descrivono. Non poteva non accadere anche alla strage di cristiani nello Sri Lanka.
E non è un caso che proprio i due maggiori leader della cultura politica liberal, l’ex presidente Usa Barack Obama e l’ex segretario di stato, candidata a succedergli, Hillary Clinton, abbiano persino coniato una nuova e beffarda espressione pur di evitare di pronunciare la parola “cristiani”: vittime degli attacchi a Colombo, hanno scritto in due tweet guarda caso a distanza di poche ore tra di loro, sarebbero stati dei fantomatici “Easter worshippers” (“devoti della Pasqua”), quasi fosse un nuovo e misterioso culto, un po’ esotico – qualcuno potrebbe pensare che si stia parlando degli indigeni dell’Isola di Pasqua. E se “Easter worshippers” sono le vittime, perché non chiamare i carnefici “Ramadan worshippers”?
Ma attenzione: non siamo di fronte solo all’ennesimo esercizio di politicamente corretto. Se così fosse, avremmo letto e ascoltato simili espedienti linguistici anche per la strage nelle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda. Invece, nei loro tweet di allora, gli stessi Obama e Clinton esprimevano solidarietà alla “comunità musulmana” e parlavano di lotta all'”islamofobia”. In modo simmetrico, oggi sarebbero dovute arrivare solidarietà alla “comunità cristiana” e condanne della “cristianofobia”.
Ci troviamo quindi di fronte a una pulizia del pensiero che va ben oltre l’obiettivo del politicamente corretto di neutralizzare il linguaggio. Ad essere epurati dal nostro discorso pubblico e politico sono le identità e i riferimenti propri di una specifica cultura, quella occidentale, che ritornano solo quando c’è da criminalizzarla. Se le vittime sono tali in quanto di religione cristiana, la loro identità “cristiana” va taciuta, nascosta, così come l’appartenenza islamica dei carnefici. Viceversa, come nel singolo caso di Christchurch, nessun indugio a identificare nei musulmani le vittime (e a indossare il velo come gesto di vicinanza) e nell’uomo bianco cristiano il carnefice.
Non chiamare le cose e i fatti con il loro nome è il primo passo della negazione. E dalla negazione della realtà, e della propria identità, non può scaturire alcuna analisi corretta, figuriamoci una politica efficace… Non c’è lògos, non c’è dialogo. È questo il “nemico interno” più pericoloso per l’Occidente: il disarmo culturale preludio del disarmo politico e militare.
Per fortuna c’è chi si oppone al discorso antioccidentale della politica e dei media liberal. La lotta al “terrorismo islamico radicale” che ha colpito lo Sri Lanka “è anche quella dell’America”, ha sottolineato ieri il segretario di stato Usa Mike Pompeo. Come dimostrano le parole dell’arcivescovo di Colombo, il cardinale Malcolm Ranjith, si possono esortare le comunità cristiane e i cittadini a non “farsi giustizia da soli”, senza per questo negare o tacere il fatto che il “vile attacco” fosse “principalmente diretto contro i cristiani”.
Flebile e formale, quasi gelida, si leva la condanna del capo della Chiesa cattolica. Eppure, anche prima del massacro dello Sri Lanka non mancavano certo buone ragioni per dedicare la Via Crucis di quest’anno alla “passione” dei cristiani perseguitati e massacrati in tutto il mondo, ma soprattutto in Oriente, invece che ai migranti. La persecuzione e il martirio delle minoranze cristiane d’Oriente non sono certo novità che scopriamo con la strage di Colombo. Proseguono da anni, da decenni anzi, e sono ben documentati nel recente libro di Giulio Meotti “La Tomba di Dio”. Un problema che “va molto oltre l’Isis” e “purtroppo c’è questa tendenza, quando si parla di persecuzione dei cristiani, a omettere la matrice islamista”, ha spiegato Meotti a Radio Radicale. Per esempio, “la scomparsa delle più antiche minoranze cristiane che parlano ancora la lingua di Gesù non ha generato emozioni nell’opinione pubblica occidentale, sempre pronta a mobilitarsi per altre cause. Nessuno in Occidente è sceso per strada con cartelli, il martirio dei cristiani orientali non ha interessato le autorità e i principali media”.
Senso di colpa, quasi che difendendo i cristiani al di fuori dei Paesi occidentali si peccasse di colonialismo? Per timore di alimentare una guerra di religione? Oppure, a causa di un Occidente che ha perso di vista le proprie radici culturali e religiose? Un po’ tutti questi motivi insieme, secondo Meotti: certamente i cristiani d’Oriente visti come i “resti del colonialismo occidentale”; “una secolarizzazione della mentalità occidentale per cui tendiamo a non preoccuparci per le vittime religiose se non quando si tratta di musulmani”. In Occidente è diventato “facile mobilitarsi per l’Altro per eccellenza, mentre quando l’Altro siamo noi siamo più pigri”.
Quando il Papa emerito Benedetto XVI, con la lezione di Ratisbona, ricorda Meotti, “indicò nell’Islam un problema nella sua intolleranza nei confronti delle altre fedi, fu notoriamente linciato, non solo nelle piazze del mondo islamico ma anche da tanti benpensanti occidentali”. Ma come vediamo in questi giorni, quel problema non si può eludere solo negandolo ed esorcizzandolo attraverso la pulizia e la polizia del linguaggio.