In guerra bisogna mantenere i nervi saldi e vigilare sul rispetto della libertà. Se stiamo combattendo una guerra per la difesa del mondo libero e dei suoi valori, non possiamo permetterci di imitare i metodi dei nostri nemici. La lotta alle fake news sta infatti prendendo una brutta piega, anche negli Stati Uniti, dove pure il Primo Emendamento protegge la libertà di religione e di espressione.
L’amministrazione Biden ha infatti annunciato la nascita del Disinformation Governance Board (Dgb), un nuovo organismo governativo, dipendente dal Dipartimento della Sicurezza Interna (equivalente del nostro Ministero dell’Interno). Lo scopo dichiarato è quello di “contrastare la disinformazione riguardante la sicurezza interna, con particolare attenzione all’immigrazione irregolare e alla Russia”.
La guerra iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è un evento che riguarda direttamente anche la politica americana, dal momento che l’amministrazione Biden sta attivamente sostenendo la resistenza ucraina. Ma è inquietante che sia considerato un problema interno e gestito dalla Sicurezza Interna. Prima della guerra, della Russia si parlava soprattutto in chiave elettorale. La sconfitta della Clinton è stata subito attribuita agli hacker russi. La propaganda russa, che indubbiamente c’è stata (e non solo nelle elezioni americane), viene considerata alla stregua di “manipolazione” delle elezioni, come se i russi avessero materialmente truccato il voto. Questi sono gli aspetti più inquietanti, perché fanno presagire che il nuovo organismo verrà utilizzato contro una parte politica, guarda caso i Repubblicani.
Anche l’altro scopo dichiarato desta non pochi sospetti. Finora, se l’opposizione ha lamentato qualcosa sulla gestione della gravissima crisi al confine con il Messico, è semmai il silenzio dei media, accompagnato dall’assenza, per mesi, di Biden e della vicepresidente Kamala Harris nelle aree di crisi. Solo in estate, dopo sei mesi dall’insediamento della nuova amministrazione, si è mosso qualcosa. Il sospetto dell’opposizione, più che fondato, è che il nuovo organo di controllo governativo serva soprattutto a censurare le brutte notizie sull’immigrazione illegale e sulla sua gestione.
I sospetti sono confermati dal nome della direttrice generale del Dgb: Nina Jankowicz. Ricercatrice, laureata alla Georgetown University, detta “Mary Poppins”, per aver lanciato la sua nuova versione della nota filastrocca del personaggio Disney (che suona: “Supercalifragilisticexpialidocious”), la Jankowicz è partita subito col distinguersi come una figura di parte, già dalla presentazione del suo nuovo incarico. Dello scoop del New York Post sul caso Hunter Biden, sulle prove che avrebbero permesso un’indagine per corruzione del figlio dell’allora candidato presidente, dice che siano solo “un prodotto della campagna di Donald Trump”. Anche il New York Times, di sinistra, ha ormai ammesso che siano vere. Sulla sfiducia degli americani nei media, pensa che sia solo: “alimentata dai continui attacchi dell’amministrazione Trump” e non dal calo di qualità o dall’ideologizzazione dei media stessi. Sulla polarizzazione della politica americana: “Finché non mitighiamo la nostra polarizzazione politica, sulle nostre questioni politiche interne, continueremo ad essere facile preda per ogni attore ostile che voglia manipolarci, russo o iraniano, interno o estero”. Che è la cosa meno democratica che si possa dire, in un sistema fondato sull’alternanza.
Solleva dubbi anche il tempismo di questo annuncio. Si potrebbe pensare che sia legato alla guerra con la Russia, in cui però gli Usa non intervengono, se non molto indirettamente. Ma la coincidenza temporale vera è quella dell’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk e la sua promessa di lasciare più libertà di espressione nel grande social network. Quel che tutti temono realmente è il ritorno di Donald Trump, che fino al giorno della sua espulsione, era un grande twittatore. Coincidenze?
Insomma, i conservatori non sono paranoici se chiamano il nuovo Dgb il “Ministero della Verità”, come quello immaginato da Orwell, nel regime del Grande Fratello, che aveva soprattutto lo scopo di riscrivere continuamente la storia. Hanno torto, però, quelli che pensano ad una equivalenza morale fra il sistema di censura occidentale e il sistema totalitario cinese e russo.
Se l’Occidente è ammalato di censura, i sistemi russo e cinese sono la malattia. È dai loro governi che vengono (più o meno consapevolmente) presi in prestito la lotta alle fake news e il controllo delle informazioni online. Sui social network cinesi, non solo si rischia di essere bannati, ma anche di perdere tutti i soldi: se i pagamenti vengono effettuati tramite l’applicazione di messaggistica di WeChat, il ban comporta anche la chiusura del conto. La censura cinese è nota, ma quel che sfugge è che il principio su cui si regge è proprio quello della lotta alle fake news, che sono considerate socialmente destabilizzanti. I giornalisti indipendenti, durante la pandemia di Covid e non solo, venivano regolarmente arrestati. Alcuni sono scomparsi dal 2020.
In Russia non c’è mai stata tanta censura quanto quella in Cina, ma dall’inizio della guerra (che deve essere definita “operazione speciale”) le regole si sono irrigidite. La “diffusione di fake news” sulla guerra è punita con pene fino a 15 anni di carcere. Ad esempio, a metà aprile, il direttore del giornale Novij Fokus, Michail Afanaseev, è stato arrestato per “diffusione di fake news”. Aveva scritto che un gruppo di poliziotti della sua regione avesse rifiutato di essere trasferito al fronte in Ucraina.
Non c’è alcuna equivalenza morale possibile. Semmai noi, non dobbiamo diventare, neppure lontanamente, simili a loro.