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Il nuovo patto anti-Cina complica i piani di Xi e spiazza i filo-cinesi nostrani

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 22 febbraio 2020

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Chissà se la lingua cinese include un detto simile a “Chi semina vento raccoglie tempesta”, da noi assai diffuso e tratto dal libro del profeta Osea. Comunque sia, la nuova alleanza tra Usa, Regno Unito e Australia (“Aukus”) lo fa venire subito in mente.

Sotto la presidenza di Xi Jinping la Repubblica Popolare ha allargato i suoi tentacoli sul mondo intero. Non contenta della grande potenza economica e commerciale raggiunta negli ultimi decenni, ha aumentato a dismisura le sue capacità militari minacciando, ancor più degli Stati Uniti, tutte le nazioni asiatiche vicine ai suoi confini. Incluse quelle, come il Vietnam, che in teoria le sono ideologicamente affini.

Pechino ha esteso in modo unilaterale, ignorando ogni protesta degli organismi internazionali, il limite territoriale delle acque che la circondano, sino al punto di impedire con la forza l’accesso di navi appartenenti ad altri Paesi.

Basandosi su vecchie carte risalenti ai tempi del defunto Celeste Impero, ha trasformato il Mar Cinese Meridionale in una sorta di “lago cinese”, riempiendolo di isole artificiali trasformate in basi militari. Senza, ovviamente, aver ricevuto il permesso di farlo dall’Onu o da altre istituzioni sovranazionali.

È interessante notare che Donald Trump è stato il primo presidente Usa a percepire la gravità della minaccia cinese. Obama, sulla questione, si dimostrò quanto meno disattento, limitandosi di quando in quando ad inviare qualche nave da guerra nelle acque internazionali che Pechino considera invece sue.

Anche il suo celebre “pivot to Asia” rimase in pratica sulla carta senza alcuna conseguenza concreta. E questo perché il primo presidente afroamericano della storia era convinto, assieme ai suoi consiglieri, che il vero pericolo per l’Occidente venisse dalla Russia di Putin, e non da Pechino.

Con Trump le cose cambiarono radicalmente e il tanto vituperato tycoon newyorkese riuscì a veicolare il messaggio che il nemico vero era, per l’appunto, la Cina comunista e non la Russia, grande potenza militare ma piuttosto debole sul piano economico.

Cercò di frenare l’invadenza cinese con la politica delle sanzioni, ottenendo pure alcuni successi. E riuscendo, soprattutto, a spingere i recalcitranti alleati occidentali a prendere finalmente coscienza del pericolo.

C’era tuttavia un ostacolo di non poco conto sulla sua strada. Sino a non molto tempo fa, eravamo convinti che la cosiddetta “globalizzazione” fosse di marca americana. C’è voluto del bello e del buono per capire, invece, che aveva gli occhi a mandorla, e costituiva la principale arma utilizzata da Pechino per realizzare la sua strategia di dominio globale.

Confidando anche sui numerosi sostenitori che vanta all’estero. Agguerriti quelli tedeschi, timorosi di compromettere le loro fiorenti relazioni con la Cina. Senza contare i filo-cinesi italiani, che spesso agiscono sottotraccia. Dai grillini cui si deve la firma pressoché immediata del progetto della “Nuova Via della Seta”, a personaggi del calibro di Massimo D’Alema e Romano Prodi intenti, pure loro, a non irritare Xi Jinping e a promuovere affari con lo sterminato mercato del Dragone.

Poi si è visto che, contrariamente alle attese, Joe Biden sta procedendo in politica estera su linee molto simili a quelle dettate da Trump. L’alleanza tra Usa, Regno Unito e Australia, dotando quest’ultima di sommergibili nucleari, è un brutto colpo per Pechino, destinato – o almeno lo si spera – a far seriamente riflettere i capi del Partito comunista cinese.

Non è certo un caso che la notizia sia stata accolta con entusiasmo a Taiwan, che la Repubblica Popolare vorrebbe annettere con le buone o con le cattive (anche manu militari). E pure in Vietnam, nelle Filippine, in Giappone e in Corea del Sud, nazioni esposte in modo immediato all’espansionismo cinese. I cittadini di Taiwan, in particolare, hanno finalmente tirato un sospiro di sollievo, giacché pareva quasi che gli americani si fossero scordati di loro.

Occorre tuttavia rammentare che “Aukus” è un brutto colpo anche per gli europei che, ancora una volta – e come nel disastroso ritiro afghano – non sono stati consultati e hanno ricevuto l’informazione solo a posteriori.

Comprensibile l’irritazione della Francia, che ha visto sfumare in poche ore un affare miliardario con gli australiani. Forse Macron dovrebbe capire che il peso del suo Paese nello scenario internazionale non è più quello che poteva vantare ai tempi del dominio coloniale.

Esce invece vincitore, ancora una volta, Boris Johnson, giacché dopo la Brexit il Regno Unito ha riconquistato gran parte del prestigio perduto, riconfermando in pieno i suoi rapporti privilegiati con gli Stati Uniti. E ribadendo in modo indiretto l’irrilevanza politica e militare dell’Unione europea. Buone notizie, dunque, anche se Biden dovrà confermare di essere deciso a proseguire con scelte coraggiose di questo tipo.

Per questo si resta stupiti leggendo, su alcuni quotidiani italiani, che la fondazione di “Aukus” è invece pericolosa poiché è una scelta di guerra e non di pace (sic). Pare insomma di capire che, secondo i filo-cinesi nostrani, l’unico modo di preservare la pace sia quello di non disturbare l’aggressività e l’espansionismo di Pechino.