Archiviate le amministrative, e con il Queen’s Speech in discussione ai Comuni, il Partito Conservatore fa il punto della situazione. Tanti gli argomenti in discussione: carovita, minaccia LibDems nei seggi a sud di Londra, come riconquistare la capitale e, soprattutto, quale futuro dare alla leadership del partito.
Un recente sondaggio pubblicato ieri da YouGov, e tenutosi nei giorni successivi alla tornata elettorale del 5 maggio, sembra dare speranza ai Tories: secondo l’istituto demoscopico britannico il partito di governo si sarebbe portato a solo 1 punto dal Labour, 35 per cento contro 36. Un risultato che, a metà legislatura, non sarebbe per nulla lusinghiero per l’opposizione. Forse sull’esito del sondaggio pesa il recente Beergate di Sir Keir Starmer, ma il fatto è che a circa due anni dalle elezioni del 2024 il Labour dovrebbe avere un distacco in doppia cifra sui Conservatori, che governano dal 2010. Invece, non sembra esserci nulla dell’entusiasmo popolare – una vera e propria “craze” – che portò Tony Blair a Downing Street nel 1997.
Se YouGov ha rinforzato al convinzione dei Tories di potercela fare nel 2024 (o sarà il 2023?) a ottenere alla prossima tornata elettorale quel quinto mandato successivo che il New Labour negò a John Major, anche un’analisi approfondita del recente voto nei councils e nei borough nello Uk fa capire come in realtà il Paese non stia voltando le spalle a Johnson e ai suoi. I Tories hanno confermato di reggere nel Red Wall, dove probabilmente si decideranno le prossime elezioni generali. Certo, i Conservatori hanno perso 336 councillors in Inghilterra e la guida di 10 councils, così come ne hanno persi 86 in Galles e 63 in Scozia. E a Londra è stata particolarmente dolorosa la sconfitta nel feudo thatcheriano di Wandsworth e a Westminster, il cui borough era di colore blu dagli anni Sessanta. Ma il Labour non ha sfondato nelle sue vecchie roccaforti e anche a Londra il risultato si presta ad altre interpretazioni.
Johnson ha mantenuto i borough di Bexley, Bromley, Hillingdon e Chelsea and Kensington, strappando al Labour quello di Harrow. Nella nuova authority di Croydon l’ha spuntata un Tory, Jason Perry. Nelle West Midlands si sono confermati i risultati di 4 anni fa, con i Conservatori che hanno mantenuto la maggioranza a Walsall, Solihull e a Dudley, anche grazie all’attività del parlamentare Tory anglo-italiano del collegio di West Dudley, Marco Longhi. A Newcastle-Under-Lyme nel nord i Tories si sono confermati maggioranza. Forse, a preoccupare il premier maggiormente sono il sud del Paese e la Scozia, dove si è visto un arretramento che, se confermato, potrebbe incidere sulla maggioranza parlamentare conservatrice alle prossime elezioni. A sud di Londra i LibDems stanno praticando una feroce contrapposizione ai candidati Tory con il beneplacito del Labour, che, spesso, rinuncia al proprio candidato per dare il via libera al partito di Sir Ed Davey. A Edimburgo un piccolo revival laburista in mezzo al mare giallo dell’SNP ha relegato Douglas Ross e i suoi Scottish Tories terzo partito a nord del Vallo di Adriano.
Ma le elezioni amministrative – ormai diventate simili alle mid-term americane – non danno mai buoni esiti al partito di governo. Il Telegraph aveva pubblicato un articolo che vedeva le perdite Tories a oltre 800 councillors. Strategia del nuovo braccio destro di Johnson, David Canzini, per limitare l’impatto della sconfitta o previsioni reali? Chissà. Il fatto è che raramente le elezioni nei council rispecchiano quelle nei collegi: altrimenti non si spiegherebbe come Wandsworth abbia 3 rappresentanti laburisti in Parlamento con un council dal 1978 in mano ai Tories. E nemmeno si spiegherebbe perché Tony Blair perse le mid-term del 1999 – in cui i Tories guadagnarono oltre 1,300 councillors e il Labour ne perse 1,150, non 500 – eppure il povero William Hague, l’allora leader conservatore, non varcò mai la porta di Downing Street.
Il carovita su generi alimentari ed energia, il partygate di cui media e politica britannica parlano quasi ininterrottamente da sei mesi a questa parte e gli scandali a Westminster – suddivisi quasi ugualmente tra i due maggiori partiti, ma che penalizzano soprattutto quello al potere – hanno sicuramente giocato un ruolo. Ora per Johnson ci sono da affrontare anche due elezioni suppletive, tenendo sempre presente la lezione della storia: tra il 2010 e il 2015 ci furono 19 suppletive di cui 14 vinte dal Labour ma alle elezioni Cameron si confermò primo ministro. Tra il 2015 e il 2017 ce ne furono 10 e il Labour ne vinse 6, eppure Theresa May mantenne lo status di partito con il maggior numero di seggi alla Camera alle elezioni. Tra il 2017 e il 2019 ce ne furono 4, i Tories le persero tutte, ma Boris Johnson ottenne la più straordinaria vittoria elettorale conservatrice dal 1987 a oggi.
Se gli argomenti di discussione nel partito sono tanti, dalla Brexit al Protocollo Nordirlandese, per passare dalla politica economica e al Levelling Up (le pari opportunità tra le regioni Uk), a tenere bando è sempre il futuro di Boris Johnson. È ancora l’asset elettorale migliore per il partito? Cosa succederà se riceverà nuove multe per il partygate, e il report di Sue Gray sulla vicenda dimostrerà un suo ruolo più attivo nella violazione delle norme anti-lockdown?
Finora a uscire allo scoperto e a chiedere nuovamente la testa di Johnson sono stati in pochi. Tobias Ellwood, presidente della Commissione Difesa dei Comuni, lo fa ininterrottamente da dicembre. Chi ha fatto campagna elettorale e ha perso, specie al sud, ha affermato che la mancanza di fiducia nei confronti di Johnson è stato uno dei temi della sconfitta. Ma Johnson è animale politico dalle sette vite, e c’è ancora chi crede che in campagna elettorale sia ancora lui il più indicato per vincere e difendere i seggi degli MPs conservatori. Tra chi vuole il suo scalpo forse si aspetta il momento opportuno per colpirlo: se dovesse, infatti, sopravvivere a un eventuale voto di sfiducia dei suoi parlamentari, Johnson sarebbe poi al sicuro per un anno e sarebbe quasi sicuramente lui a guidare i Tories alle prossime elezioni.
Gli aspiranti alla leadership non mancano. Le quotazioni del ministro della difesa, Ben Wallace, sono in rialzo di recente, e, se si dovesse guardare a un anti-Boris in tutto e per tutto, il partito potrebbe scegliere un candidato più a sinistra come l’ex ministro degli esteri Jeremy Hunt (che ancora non ha commentato i risultati elettorali) o l’ex veterano di guerra Tom Tugendhat, che potrebbe correre con una piattaforma fondata sul “ripristino dell’integrità morale nella sfera pubblica”. Il fatto è che nessuno di questi, così come altri would-be Prime Ministers quali Truss o Patel o Gove, hanno la stessa presa di Johnson presso la popolazione. Nessuno buca i tinelli inglesi come lui. Non si vede nessuno chiamare Hunt per il suo nome di battesimo, mentre per tutti l’attuale premier è “Boris” e basta. E chi conquisterebbe i voti del Red Wall che va da Clywd in Galles fino a North Grimsby nel nord-est inglese senza Johnson?
Se sopravviverà al partygate, saprà gestire l’inflazione – come fece il suo predecessore Margaret Thatcher – l’economia darà buoni segni prima del voto, e riuscirà a tagliare le tasse che ha alzato come non mai da 70 anni a oggi, causa pandemia e guerra in Ucraina, non è affatto da escludere una vittoria di Johnson e dei Tories alle prossime politiche. Se poi sembrerà evidente che il Labour potrà avere una maggioranza solo con i nazionalisti scozzesi e/o i LibDems – così come sembra evidente già da adesso – non sarà difficile per i Conservatori rispolverare lo slogan della Coalition of Chaos che Cameron usò nella campagna del 2015 contro il Labour di Ed Miliband. Mai sottovalutare i Tories, mai sottovalutare Johnson: è una delle poche regole della politica britannica che tutti hanno imparato, anche a loro spese, in questi ultimi anni.