Nella sua carriera televisiva il conduttore inglese Jeremy Clarkson ha guidato i mezzi a quattro ruote più disparati, sfrecciato su circuiti e strade normali con bolidi e supercar, guadato fiumi e solcato montagne per mettere alla prova motori, sospensioni e carrozzerie, spingendosi negli angoli più impervi del pianeta e approfittando della sua presenza per creare qualche incidente diplomatico, come quella volta che attraversò la Patagonia lungo il confine argentino con una Porsche targata H982 FKL, in omaggio alla vittoria britannica nella guerra delle Falklands. È stato licenziato dalla BBC e dal programma che l’ha consacrato, Top Gear, dopo aver litigato con un membro della troupe per un imprevisto nel catering: un pugno sul muso e un appellativo per nulla delicato alle origini irlandesi del malcapitato. Sul suo capo pendono accuse di razzismo, linguaggio offensivo e negazionismo climatico. Ma la sua popolarità tiene botta alla woke generation che quotidianamente mette all’indice qualche personaggio scorretto.
Ne è prova il successo di Clarkson’s Farm, il documentario prodotto da Prime Video che racconta la sua esperienza come agricoltore nella tenuta immersa nel meraviglioso paesaggio rurale del Cotswolds, iniziata nella tarda estate del 2019. E che dimostra come un personaggio scomodo possa trasformarsi in una sorta di riferimento in un anno così scompigliato come il 2020. Una sfida a se stesso, vinta a caro prezzo. Clarkson affronta l’avventura con la boria e la supponenza che ne delineano i contorni, acquistando come trattore un Lamborghini giusto perché un Lamborghini e non valutandone davvero l’utilità – “troppo grosso”, gli dicono quelli del mestiere -, finendo per affidarsi ai consigli di una gentile assistente del consorzio locale per capirci qualcosa tra i numerosi bottoni che popolano la cabina. Regala humour graffiante quando chiama i due montoni impegnati ad ingravidare il suo gregge Wayne Rooney e Leonardo Di Caprio (il primo preferisce le pecore più mature, il secondo quelle più giovani, ci scherza sopra) e mostra inaspettatamente empatia con le pecore seguendole giorno e notte durante il parto.
Attacca briga con gli ambientalisti quando decide di abbattere alcune piante nel bosco e controbatte sostenendo la tesi che in questo modo consentirà alla vegetazione più bassa di ricevere più luce solare, permettendole di rigenerarsi: e non ha torto. Sbuffa per le numerose regole governative e locali da rispettare (dalla conservazione dei fertilizzanti alle autorizzazioni per la costruzione del farm shop) e ringrazia i fondi ministeriali che vengono versati agli agricoltori perché lascino crescere alcune qualità di fiori sui loro terreni.
Si spaventa di fronte al diffondersi dei primi casi di Covid-19 (“Sto raggiungendo i sessanta, ho fumato un milione di sigarette, ho avuto una polmonite”), ma non smarrisce lo spirito e si vanta del titolo di “key worker” che gli consente di continuare a lavorare. Salvo poi assaggiare direttamente le conseguenze economiche del lockdown, con il prezzo di grano e orzo in caduta libera a causa della contrazione della domanda generale e realizzando dopo un anno di duro lavoro, al netto delle spese sostenute, un profitto di 144 £. “Cosa faranno gli altri agricoltori che non hanno una troupe di Amazon al seguito una volta finiti i sussidi?”, domanda sconsolato al fedele agronomo Charlie che con il consueto aplomb risponde “probabilmente ci sarà il 30 per cento in meno di contadini”.
La serie merita di essere seguita, meglio se in lingua originale per esercitarsi con il dialetto locale del tuttofare Gerald e per scoprire altri personaggi come il giovane aiutante Kaleb (fucking idiot è l’epiteto che più usa per descrivere i disastri combinati dal conduttore). Ma soprattutto per apprezzare una volta di più il terribile Clarkson, ritratto di un uomo normale che impara un’arte e la mette da parte, che ammette gli errori e si decide ad ascoltare i suggerimenti, che riconosce il valore degli altri, ma non manca di riservarsi qualche frecciatina pungente. Poca fama, tanto fango e molti sorrisi, anche amari.