Si parla e si è sempre parlato, dal quel febbraio in cui il Paese è entrato nel tunnel del Covid-19, di una alternativa fra salute e economia, dando affatto per scontato che la libertà personale fosse da considerarsi del tutto secondaria, una pura astrazione rispetto alla fisica concretezza di una malattia prodotta da un virus invisibile e subdolo e di una caduta verticale di un Pil già di per sé stagnante. Eppure, se c’è qualcosa che caratterizza in maniera indelebile le carte costituzionali lunghe del Secondo Dopoguerra, questo è proprio la garanzia della libertà personale, declinata in tutte le sue varianti, domicilio, mobilità, riunione, opinione, propaganda, i famosi diritti civili della eredità liberale, su cui poggiano i diritti politici della moderna democrazia. Certo, anch’essi possono essere limitati, ma solo in forza di leggi proporzionate alla finalità perseguita, comunque soggette al controllo del presidente della Repubblica e al giudizio della magistratura, con eventuale rinvio alla Corte costituzionale. A differenza di altre, la nostra Costituzione non prevede lo stato di emergenza o di eccezione, che dir si voglia, che contempli l’assunzione di poteri straordinari da parte dell’Esecutivo a fronte di una congiuntura improvvisa e meritevole di una risposta immediata; prevede solo una decretazione di urgenza, che richiede una successiva conversione in legge da parte di entrambe le Camere. Non è un optional, ma l’elemento essenziale di un sistema basato sul Parlamento, anche a costo di un esecutivo debole, non per niente primo imputato del continuo tentativo di aggiornamento del nostro testo fondamentale, peraltro sempre seccamente respinto dal corpo elettorale. Un sistema, sia chiaro, non casuale, ma consapevolmente voluto dall’Assemblea Costituente, con un compromesso fra le due forze principali, la Dc e il Pci, nessuna capace di prevedere quale sarebbe uscita vincente dalle prime elezioni politiche, ma comunque sicura di avere una forte rappresentanza parlamentare.
Non è il caso di riprendere qui il rosario di lamentazioni circa questo netto primato del Parlamento rispetto all’Esecutivo, che peraltro è stato corretto attraverso una serie di bypass al limite della costituzionalità: leggi delegate del tutto generiche, sì da dar praticamente carta bianca al governo nella decretazione delegata; decreti legge ripetuti alle scadenze e , comunque, accompagnati nella conversione in legge dalla questione di fiducia, tale da escludere qualsiasi riforma da parte dell’opposizione; regolamenti più o meno delegati, tali da erodere l’area riservata alla funzione legislativa. Quest’ultima è divenuta la pratica normale del Governo Conte 2, con l’emanazione divenuta ormai frenetica dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, di cui più di una voce autorevole ha considerato al di là del limite segnato dalla nostra Costituzione, privi di alcun controllo istituzionale. Non c’è stato, però, alcun significativo riscontro critico da parte dei mass media, tutti concentrati sui numeri del Covid-19, che di per sé giustificherebbero l’uso continuato di Dpcm, peraltro condannati a inseguire l’espandersi del virus giorno per giorno, accavallandosi e smentendosi, sì da dare l’impressione di una navigazione a vista, gravida di incertezza.
Fa sorridere il chiasso che si è fatto intorno a quella frase sfuggita a Salvini della sua aspirazione ai “pieni poteri”, che evidentemente significava solo la conquista di una maggioranza tale da permettergli di governare, oggi quei pieni poteri li esercita Giuseppe Conte, senza essere stato legittimato da alcun voto popolare. Non solo nel silenzio ma nell’appoggio incondizionato di quanti ieri si strappavano il petto profetando un golpe, all’unico fine sempre sfruttato dal maggior partito della sinistra, da Pci a Pd, di creare un fronte popolare a difesa del regime democratico contro un centrodestra rappresentato al meglio come autoritario e al peggio come parafascista.
La tattica messa a punto dal nostro presidente del Consiglio, che certo ha rivelato una straordinaria capacità di galleggiare, è quella di apparire come la vera ultima risorsa di un Paese sempre più stremato, con ormai 22 Dpcm, accompagnati da conferenze illustrative in piena mostra televisiva, facendone l’assoluto protagonista della scena politica, dove risultano del tutte sfocate le riunioni di maggioranza che le precedono. Ne costituisce una precisa conferma il fatto che il suo consenso popolare sia stato assai più ampio di quello accordato ai partiti che lo sostengono, che, sondaggio dopo sondaggio, restano sempre di circa sei punti al di sotto dei partiti di centrodestra, uniti in una coalizione a tutto campo, dal centro alla periferia.
Certo, nelle sue esternazioni Conte riecheggia le evanescenti parole di Mattarella a favore di unità nazionale che pare non riguardare i partiti ma i cittadini, ma non risponde affatto alle sollecitazioni concordi di Salvini, Meloni, Berlusconi per una collaborazione effettiva nella battaglia contro la pandemia, anzi le ignora, fino alla beffa di far loro conoscere i contenuti dei suoi decreti tramite telefonate, fatte poche ore prima delle conferenze di presentazione. Sa perfettamente che la sua sopravvivenza dipende non solo dalla tenuta numerica, ma dalla totale autosufficienza di una maggioranza eterogenea che non solo si è formata, ma anche si perpetua nella logica di essere l’unica alternativa ad una deriva esorcizzata come sovranista e populista, anti-europea e demagogica.
La situazione non gioca più a suo favore come nella prima fase, quando con l’imposizione di un lockdown nazionale, di contro allo stesso parere del Comitato tecnico-scientifico, fu possibile coprire le falle del sistema sanitario, essendo la pandemia concentrata al Nord dove quel sistema era dopotutto più attrezzato. Ora, nella seconda fase, con la pandemia pesantemente diffusa anche al Sud, riesce del tutto evidente l’inerzia di iniziativa nell’estate, senza poterla scaricare tutta sul ben prevedibile ritorno estivo alla vita, di una popolazione soprattutto giovanile, che era stata costretta a chiudersi in casa. Il nostro amico sa di non poter essere quello che decide un altro lockdown generale, non solo per l’impatto economico, ma anche e soprattutto per lo scoraggiamento, pronto a passare al ribellismo, come anticipato alla Camera dal capogruppo Pd, Del Rio. Quindi, recita il ruolo di chi è contro, ma si lascia trascinare decreto dopo decreto dal pressing delle regioni, cosa del tutto evidente in quell’autentico capolavoro di prevedere misure passibili di essere indurite dai governatori regionali.
Ieri le regioni erano quelle da mettere in fila, espressione del sistema anarchico inaugurato dalla riforma del Titolo V della Costituzione, da rivedere quanto prima per restituire allo Stato centrale una capacità di governo unitario, come richiede una situazione pari a quella creata dalla pandemia; oggi, invece, le regioni sono chiamate a corresponsabilizzarsi, con un loro coinvolgimento nella determinazione delle misure dei decreti. Questo permette a Conte di escludere completamente l’opposizione parlamentare, con una copertura assicuratagli da un universo di regioni, di cui ben 15 sono governate dal centrodestra, ricavandone una legittimazione, non senza qualche benvenuta frizione fra i governatori di centrodestra e i loro leader politici. Il gioco pagherà? Tutto dipende dall’andamento della pandemia. Se sfuggirà di mano, ingolfando i sistemi sanitari del Nord e collassando quelli del Sud, lo stesso instabile equilibrio politico sarà posto sotto uno stress non sopportabile, sì da rendere inevitabile anche per questo presidente della Repubblica un risveglio dal suo silenzio assordante, per invocare pubblicamente un vero coinvolgimento dell’opposizione, tanto più se il clima sociale si farà incandescente e il tesoretto comunitario si allontanerà nel tempo.