L’appello del 2 giugno: Mattarella ha chiamato le forze politiche a “superare le divisioni”, ma da presidente della Repubblica e presidente del Csm, lui per primo non ha agito “super partes”
Non si può dire che il nostro presidente della Repubblica non abbia compiuto un percorso lineare, fra l’altro condiviso da molti suoi confratelli, passando dalla Democrazia cristiana al Partito popolare italiano, dal Partito popolare italiano alla Margherita, dalla Margherita al Partito democratico, lasciandosi sempre alle spalle un qualcosa destinato a sparire nell’assestamento faticoso della cosiddetta “Seconda Repubblica”. Al termine di questo itinerario, a usuale coronamento di un prolungato soggiorno parlamentare, era stato nominato dal Parlamento giudice costituzionale in quota Partito democratico, per, poi, essere eletto presidente della Repubblica su designazione di Matteo Renzi, allora segretario del Partito democratico.
Nulla da dire sulla persona, colta ed equilibrata, ma certo la sua milizia gli ha guadagnato sia la nomina alla Corte costituzionale sia la elezione a presidente della Repubblica, con una condivisione consolidata di una politica, che si può anche battezzare “democratica di sinistra”, certamente ostile ad una destra berlusconiana ritenuta non degna di governare. Certo, si dice che non è come si arriva ad una carica, ma come la si gestisce a contare, anche se, poi, questa sorta di scusa la si fa valere sempre e solo a favore di chi gioca dalla nostra parte. D’altronde, se l’elezione del presidente fosse un atto neutrale, non si spiegherebbe la battaglia che la colora ogni volta, non ultima la giustificazione di questa maggioranza a durare proprio per far suo anche il prossimo capo dello Stato.
È evidente che, eletto da una parte ben etichettata, il nostro presidente cerchi di parlare come rappresentante dell’intero Paese, come richiesto dalla carica che riveste. Non si può dire che non ci riesca, col suo parlare semplice, accorato, ma fermo, consapevole dell’amaro presente, ma aperto ad un futuro creativo. Solo che, nel farlo, ricorre ad una rappresentazione agiografica della storia d’Italia, come se fosse stata e fosse unitaria, caratterizzata da una dialettica fondata sulla reciproca legittimazione democratica di maggioranza e opposizione, destinate ad alternarsi fisiologicamente alla guida del Paese. C’è stata, è vero, una redazione della Costituzione all’insegna di un alto compromesso, ma se confezionata con una assoluta centralità del Parlamento vis-à-vis del Governo, lo fu perché i due protagonisti principali, Democrazia cristiana e Partito comunista italiano, non erano sicuri di a chi sarebbe toccato il Governo. Ma quel che seguì alle elezioni politiche che del 18 aprile 1948 fu tutt’altro che un’Italia unita, con una Democrazia cristiana a farsi carico della collocazione internazionale dell’Italia, piano Marshall, Nato, Ceca, e della ricostruzione battezzata come miracolo economico; ed un Partito comunista italiano, ancora egemonizzato da Mosca, non considerato una alternativa democratica, tanto da perpetuare a suo danno la cosiddetta “conventio ad excludendum”. Roba del passato, ma chi l’ha vissuta, la conserva ancora nitida, perché allora non c’era scelta, ci si doveva schierare da una parte o dall’altra, in quella che era una vera battaglia di civiltà. Ma, poi, non solo roba del passato, ma anche del presente meno recente e recente, dallo tsunami di Tangentopoli in poi, perché a parti invertite, la “conventio ad excludendum” è stata sostenuta, ieri, contro Berlusconi, e, oggi, Salvini e Meloni, con un intervento attivo della magistratura penale, che ha rasentato se non integrato un vero e proprio colpo di stato giudiziario.
Mattarella chiede addirittura l’”unità morale” del Paese. Ma pensa di aver fatto tutto per meritarsela? L’ha fatto, come presidente della Repubblica, dando semaforo verde ad una maggioranza raffazzonata, creata con la sola finalità di escludere delle consultazioni che allora avrebbero visto una sicura e larga vittoria del centro-destra? L’ha fatto, come presidente del Consiglio superiore della magistratura, ignorando il peccato originale di in vicepresidente nominato da un accordo fra rappresentanti delle correnti e del Partito democratico.
C’è, però, in scadenza prossima una sorta di prova del nove, relativa alla elezione del suo successore. Lascerà che sia questo Parlamento costituzionalmente delegittimato, dato l’esisto scontato del referendum, a scegliere?