Tutti rammentano l’innamoramento della sinistra, non solo italiana, per Barack Obama. Eppure, con il primo presidente afroamericano, la politica estera degli Stati Uniti era diventata una sorta di mistero o, ancor meglio, un guazzabuglio nel quale persino gli analisti più esperti stentavano a raccapezzarsi.
Ovviamente c’erano dei motivi che spiegavano tale situazione. Infatti quando gli americani intervengono direttamente nelle crisi che scoppiano al di fuori dei loro confini sono: 1) imperialisti, 2) guerrafondai e 3) bramosi di potere. Se non intervengono, però, apriti cielo. In quel caso diventano: 1) pavidi, 2) irresponsabili e 3) disinteressati alle sorti del mondo. Assai spesso le stesse persone adottano entrambi gli atteggiamenti di cui sopra, senza notare l’enorme contraddizione tra essi.
E tuttavia situazioni simili si sono già verificate molte volte nella storia recente, senza che per questo gli Stati Uniti si facessero impressionare più di tanto. Cardine della loro politica estera è sempre stata la dimostrazione – rivolta all’esterno – di poter dominare gli eventi grazie alla superiorità non solo militare e tecnologica, ma anche “politica” in senso lato. Ebbene, con l’amministrazione Obama le cose erano cambiate in modo radicale. A causa della perenne incertezza dell’allora presidente, gli Usa davano spesso l’impressione di non saper bene che fare quando, per l’appunto, si verificavano crisi potenzialmente in grado di alterare in maniera irreparabile gli equilibri globali.
Si navigava dunque nell’incertezza, e molti speravano che il suo successore fosse magari meno dotato sul piano oratorio, e più abile (e scaltro) in politica (soprattutto in quella estera che più interessa i non americani). Con Obama, se mi si concede l’espressione, eravamo davvero giunti alla frutta. Verso la fine del suo secondo mandato il governo cinese si permise addirittura di affermare che una potenza “in declino” come gli Usa non può avere la pretesa di interferire negli equilibri in Estremo Oriente. Pechino si riferiva alla crescente tensione nel Mar Cinese Meridionale, dove il rischio di scontri diretti stava diventando sempre più concreto, come del resto accade anche ora.
Pure in quel caso l’approccio morbido di Obama e della sua amministrazione non sortì effetto alcuno: i cinesi continuarono a fare più o meno i propri comodi, infischiandosene delle proteste diplomatiche americane, giapponesi e di altre nazioni che si affacciano nell’area.
La presidenza Trump ha totalmente cambiato la scena, anche se affermarlo significa andare contro il politically correct che oggi va per la maggiore tanto in Europa quanto negli Usa. Innanzitutto, Trump ha pienamente compreso le conseguenze negative della “globalizzazione cinese” mettendo Pechino sotto pressione. Si tratta di una vera e propria resa dei conti commerciale, attuata con la politica dei dazi, la quale ha fatto capire alla leadership comunista cinese che i tempi dell’impunità sono finiti.
In realtà del pericolo si erano accorti anche Obama e Bush, ma nessuno aveva osato muovere un dito per raddrizzare la situazione. E anche sulla repressione delle manifestazioni a Hong Kong si è dovuto attendere che Trump entrasse alla Casa Bianca per assistere a un mutamento significativo. I precedenti presidenti Usa si limitavano alle dichiarazioni di principio, ma poi adottavano in sostanza la posizione del nostro ministro degli esteri Luigi di Maio: “Hong Kong è un affare interno della Cina”.
La preoccupazione principale riguarda però lo sfidante Democratico di Trump, l’ex vice di Obama Joe Biden. Nella sua campagna elettorale non è mai stato in grado di chiarire cosa farebbe in politica estera qualora riuscisse a vincere. Esempio perfetto del politically correct, Biden non si sbilancia mai e continua a esprimersi in modo terribilmente vago. Aveva promesso di scegliere come vice una donna, possibilmente afroamericana. Ebbene, circolano nomi a iosa ma, a soli quattro mesi dalle elezioni, nessuno ha capito chi sarà la prescelta.
Tutto questo mentre l’ondata iconoclasta che sta percorrendo gli Stati Uniti non accenna a placarsi. E, lo si noti, ci vanno di mezzo pure figure iconiche del progressismo americano. Da Abraham Lincoln, colui che pose termine alla schiavitù dei neri vincendo la Guerra di Secessione, a Woodrow Wilson, il presidente idealista che intervenne nella Prima Guerra Mondiale garantendo la vittoria delle democrazie e poi promosse la fondazione della Società delle Nazioni, antesignana dell’attuale Onu. Secondo gli iconoclasti razzista pure lui (come Lincoln) e quindi indegno di essere ricordato.
L’Università di Princeton, della quale Wilson fu rettore, ha deciso di rimuovere il suo nome dai suoi college, così dimostrando ancora una volta che, in America, origine e diffusione del politically correct vanno collocati proprio in ambito accademico, per quanto incredibile possa sembrare.
Trump ha reagito con un grande discorso davanti al Monte Rushmore dove sono scolpiti i volti di Washington, Jefferson, Lincoln e Theodore Roosevelt, sfidando coloro che – in perfetto stile talebano – vorrebbero far saltare questo monumento e promettendo punizioni severe.
Nessuna notizia, invece, da Joe Biden, purtroppo favorito nei sondaggi. Il che fa pensare che l’eventuale elezione dell’ex vice di Obama alla presidenza sarebbe un dramma per gli Stati Uniti, e per tutti gli americani che non vogliono cancellare la storia e perdere la memoria dei tanti personaggi che hanno contribuito alla loro grandezza.