Sicché lo Stato è tornato ad essere la panacea di tutti i problemi. Il decennio di Reagan e della Thatcher pareva aver cambiato paradigma, considerando lo Stato come un problema e non la soluzione. Ne è seguito un periodo di grande crescita economica che neppure la crisi del 2008, pur nella sua gravità, è riuscita ad interrompere. Ora, stando a quanto dicono i leader del G7, c’è una sola via per ricostruire le economie distrutte dall’intervento statale, giustificato dalla pandemia: lo Stato deve intervenire ancora di più. Se ne stanno accorgendo in pochi, quelli che non hanno dimenticato di essere conservatori alla vecchia maniera anglosassone (come James Forsyth sul The Spectator) e quei liberali classici che non si sono ancora fatti attirare dalle sirene del nuovo keynesismo e dell’ecologismo.
Biden ha presentato al Congresso e ribadito al G7 un piano infrastrutturale da 6 mila miliardi di dollari, Johnson lo segue con uno da mille miliardi di dollari, che in proporzione al Pil britannico è nettamente superiore. Tutti i 7 Grandi promettono per la ricostruzione una cifra spettacolare: 12 mila miliardi di dollari. Come si può vedere lo schieramento è ormai assolutamente trasversale: il democratico Biden, il conservatore Johnson, il centrista laico Macron, la democristiana Merkel e il tecnocrate Draghi, su questo, la pensano tutti allo stesso modo. Lo statalismo è di nuovo il paradigma del pensiero economico.
Ci sono fattori politici ed economici che giustificano queste scelte. Economici: prendere a prestito denaro, in un’era in cui le banche centrali fissano il tasso di interesse attorno allo 0 costa molto poco, anche in termini di consensi. Ai tempi di Margaret Thatcher la spesa pubblica a debito avrebbe dovuto essere compensata con un aumento di tasse, al giorno d’oggi i politici paiono “creare” soldi dal nulla e spendono anche senza alzare la tassazione. Questo gioco è bello, ma durerà poco, perché si pagherà in termini di inflazione, dunque in calo di potere di acquisto e di perdita di valore dei risparmi. Ma comunque, nel breve periodo, da qui alla prossima elezione, ai politici di governo sarà permesso spendere di più e a quelli di opposizione chiedere di spendere ancor di più.
Fattori politici: l’Occidente è stato scosso da una serie di crisi, terrorismo, grande recessione, crisi dei debiti sovrani, grande immigrazione e infine Covid. Tutte amplificate da un sistema mediatico che ormai segue l’agenda dei social network ed aumenta l’emotività di ogni evento. Ad ogni crisi, come di consueto, il cittadino medio chiede maggiore protezione e la chiede allo Stato. Il Covid ha permesso agli Stati democratici occidentali di assumere poteri straordinari, come in tempo di guerra, con il pieno consenso delle loro popolazioni. E non è detto che si torni alla normalità, una volta che la pandemia sarà finita.
Considerati questi fattori contingenti, è bene però non farsi illusioni. Questo statalismo di ritorno non è un fulmine a ciel sereno, ma il culmine di una tendenza consolidata negli ultimi tre decenni e ormai capace di cambiare paradigma definitivamente. Già ai tempi di Reagan e della Thatcher, il libero mercato non era affatto accettato a cuor leggero. Nella sua consueta ironia, il compianto filosofo conservatore Roger Scruton scriveva che con la vittoria della Thatcher gli intellettuali inglesi erano finalmente contenti: avevano qualcuno da odiare. I film in tema economico ai tempi della Reaganomics, basti pensare a Wall Street, sono tutt’altro che pro-mercato. Il ritiro dello Stato dall’economia è una politica che è stata accettata a denti stretti e con mille riserve nei dipartimenti di economia nelle facoltà di tutto il mondo occidentale. Già negli anni Novanta, lo sforzo pressoché unanime del mondo accademico era la ricerca di una “terza via”, che pareva incarnarsi in Clinton e Blair: liberismo sì, ma…
Almeno i concetti dello Stato-mamma e dello Stato-imprenditore, comunque, erano stati superati. O no? No, evidentemente, perché sono ritornati in auge, anche prima del Covid. Come è stato possibile? Perché al fianco di economisti che accettavano (a denti stretti e con mille riserve, ripetiamo) il cambio di paradigma degli anni Ottanta, ce n’erano altrettanti che restavano keynesiani inossidabili, marxisti inossidabili e addirittura decrescitisti, quindi contrari al concetto stesso di economia per come l’abbiamo sempre intesa. Queste scuole di pensiero sono letteralmente esplose con la crisi del 2008, quando sui nostri quotidiani più autorevoli e nelle nostre università, sono tornate alla carica tesi che, fino a pochi anni prima, sarebbero state considerate semplicemente sbagliate, da bocciatura, da correzione con matita blu. Se gli scienziati “hanno la testa dura”, figuriamoci gli economisti, che non devono neppure verificare le loro teorie con esperimenti in laboratorio.
E quindi abbiamo ricominciato (o iniziato) a sentire tesi come: lo Stato deve poter stampare moneta quanto vuole e così può creare ricchezza, il debito non è un problema, l’inflazione non è un problema, le tasse devono essere alzate per i ricchi per arricchire i poveri, lo Stato deve pagare sussidi a chi non lavora e senza condizioni, lo Stato deve fare l’imprenditore e l’innovatore, lo Stato deve proteggere la produzione nazionale. Oltre che tesi ancor più ardite che, ormai, sono considerate praticamente “normali” anche da politici moderati: l’uomo deve poter fare a meno del lavoro, si devono ridurre i consumi, si deve tendere all’autosussistenza agricola, si deve smettere di produrre e semmai ci si deve limitare al riciclo.
Proposte che prima erano limitate a pochi circoli di intellettuali di estrema sinistra o ai ragazzini più ingenui dei centri sociali, oggi le sentiamo imporre da presidenti delle banche centrali e dai leader del G7, come la tassa globale alle aziende più ricche: ovunque nel mondo, a prescindere dalla nazionalità della sede e del proprietario e dalla sua legislazione fiscale. È la distruzione del diritto tributario per come lo abbiamo conosciuto finora e, potenzialmente, è la fine della concorrenza fiscale, quindi dell’unico vero motivo per cui oggi esistono Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft, Netflix e altre grandi aziende competitive e innovatrici (che sono cresciute grazie a regimi fiscali legali, favorevoli).
Quel che stupisce maggiormente, in questo cambio di paradigma, è che il sistema precedente non sia affatto fallito. Il paradigma anti-statalista si era affermato a seguito del fallimento conclamato del welfare state occidentale, di quello britannico (“grande malato d’Europa”) in particolare. Si è poi ulteriormente diffuso quando i sistemi socialisti reali dell’ex Urss e dei suoi satelliti europei sono letteralmente implosi. In quel caso si è capito quanti danni facesse lo Stato ai suoi cittadini e si è capito che si dovesse per lo meno limitare la sua invadenza. Al giorno d’oggi viviamo in un mondo molto più ricco di quello degli anni Ottanta. La crisi del 2008 è stata presa come primo pretesto per cambiare paradigma economico e riportare in auge lo statalismo, ma non ha affatto seppellito i sistemi di libero mercato. Anzi, le economie più libere, come quelle del Regno Unito, dell’Irlanda e dei Paesi Baltici, giusto per fare gli esempi più eclatanti, sono quelle che hanno impiegato meno tempo per riprendersi.
Non c’è stato alcun “fallimento del neoliberismo”, se non nelle aule universitarie e, di conseguenza, anche nelle redazioni di quasi tutti i media, mainstream e alternativi. Se il cambio di paradigma culturale non rispecchia per nulla la realtà, possiamo però azzardare un’ipotesi sul perché piaccia così tanto. Oltre al fatto che gli intellettuali (che sono quelli che formano le nostre menti) e gli artisti (che sono quelli che condizionano i nostri cuori) non hanno mai accettato il paradigma anti-statalista, quel che non è mai stato accettato dell’ultimo trentennio di globalizzazione è proprio l’aumento della ricchezza. Perché è avvenuto in modo diseguale. È sbagliato dire, come fanno in tanti, che “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri” (vecchio mantra marxista sempre verde). La seconda parte di questo periodo è sbagliata, perché i poveri di oggi sono invece molto più ricchi rispetto a quelli di trent’anni fa. Sempre meno gente è in condizione di povertà estrema. La lotta contro la povertà, al netto del Covid, è stata in gran parte vinta, meglio delle migliori previsioni, non a causa di piani sociali ben riusciti, ma proprio solo grazie alla globalizzazione del libero mercato.
Quel che spaventa le masse, però, è che “i ricchi di oggi sono molto più ricchi dei ricchi di ieri, rispetto ai poveri loro contemporanei”. Questa sarebbe la frase corretta. Non è diminuita la ricchezza, ma sono aumentate le disuguaglianze. E le disuguaglianze sono percepite come inaccettabili dalla cultura e dalla moralità dominanti. Ma non dovrebbero costituire un problema. Il problema è infatti solo la povertà e l’obiettivo è batterla, non quello di ridurre la differenza di patrimonio fra Bill Gates e chi scrive. È una sconfitta dei conservatori e dei liberali classici non essere riusciti a spiegarci che dobbiamo gioire per la fine della povertà e non dobbiamo piangere di invidia perché c’è gente che sta meglio di noi. Anche a destra, invece, è prevalsa la narrazione facile dell’invidia sociale. Del “darò anche a te quel che è suo”. Che è poi alla base dello statalismo di nuovo trionfante.