In un recente articolo pubblicato sul suo sito web, il politico ultra-conservatore americano Pat Buchanan afferma che “l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina non sono né sono mai state un interesse vitale” degli Stati Uniti. Di conseguenza Washington non avrebbe nessun obbligo di proteggere quello che, a suo parere, non è in nessun caso un alleato strategico nello scenario europeo.
L’articolo è stato favorevolmente accolto e prontamente ripreso anche in Italia da alcune fonti qualificate, tra cui il docente della Luiss Germano Dottori, in virtù del suo realismo, e i giornalisti Luigi De Biase e Massimo Boffa, sempre schierati con Mosca sulle questioni internazionali. Le osservazioni di Buchanan non stupiscono, essendo note le sue posizioni isolazioniste rispetto al ruolo globale degli Stati Uniti e la sua avversione per le “avventure imperiali” del governo americano. La sua visione è affine alle posizioni involutive che una parte consistente dell’opinione pubblica europea pare ormai aver sposato, amplificate dalla grancassa dei social media e da certo giornalismo compiacente nei confronti dei venti autoritari che spirano sulle democrazie occidentali, provengano da Mosca, da Teheran o da Pechino. Trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’ultima battaglia ideologica post-Guerra Fredda si combatte attorno al rilancio dei sistemi russo e cinese, pur non assimilabili, come antagonisti del modello politico e sociale occidentale, già marmato da anni di costante, implacabile e autolesionista critica interna.
Sull’esercito di volontari pro-Putin che popolano la rete sarebbe utile soffermarsi, data l’entità e le caratteristiche di un fenomeno in crescita esponenziale. Ma sulla questione ucraina il loro apporto non è specialmente interessante, essendo aprioristicamente diretto a screditare la posizione di Kiev e a supportare la versione del Ministero degli esteri russo, che Putin ha abilmente trasformato in un formidabile strumento di propaganda revisionista. Più preoccupante è la sottovalutazione del casus belli da parte dei sostenitori della realpolitik, spesso propensi a invocare un’improbabile composizione amichevole con il Cremlino a costo di ignorarne le reali intenzioni nel contesto europeo e mediorientale.
L’idea che l’Ucraina possa essere sacrificata in nome dell’appeasement con Mosca rappresenta non solo una bancarotta morale (ai realisti questo aspetto potrebbe apparire di secondaria importanza) ma soprattutto apre la strada a un clamoroso fallimento strategico, in grado di compromettere proprio quella stabilità dello spazio europeo che si pretende di raggiungere. Mentre Europa e Stati Uniti si chiedono se e in che misura valga la pena difendere l’indipendenza e la sicurezza dell’Ucraina, la Russia non ha dubbi sulla rilevanza di quello che storicamente ha sempre considerato un semplice territorio disponibile, un’estensione del suo spazio vitale, addirittura privo di una personalità statale autonoma.
A richiamare i realisti al realismo ci pensa Jakub Grygiel, professore di politica alla Catholic University of America, che analizza in un pregevole articolo per la Hoover Institution il ritorno della Russia sullo scenario mediorientale. Il ragionamento di Grygiel è il seguente: la rinnovata assertività di Mosca in Siria, e per estensione nella politica mediorientale, ha come obiettivo principale quello di destabilizzare ulteriormente l’area per poterne ricavare benefici in termini di alleanze tattiche, in un’ennesima azione di disturbo degli interessi occidentali e soprattutto statunitensi; in quest’ottica le operazioni militari in Georgia e Ucraina, e l’aspirazione al controllo territoriale e politico su quest’ultima rappresentano per la Russia non solo la porta d’entrata nelle dinamiche di potere europee e il freno alle prospettive di integrazione delle ex repubbliche sovietiche nell’Ue e nella Nato, ma anche la possibilità di estendere la propria influenza sul versante meridionale, verso il Mar Nero, il Mediterraneo orientale e, appunto, il Medio Oriente; solo un’Ucraina indipendente sarebbe in grado di contenere le mire espansioniste di Putin in quell’area e di permettere agli Stati Uniti di concentrarsi su altre questioni essenziali, come la sfida cinese o i nuovi equilibri euro-atlantici.
Grygiel capovolge quindi la prospettiva rispetto all’analisi di Buchanan: non solo l’Ucraina è un Paese chiave per la stabilità in Europa ma lo è soprattutto per la sicurezza mediorientale, dove la Russia sta assumendo un ruolo da protagonista nonostante le oggettive limitazioni militari e logistiche. A meno che non si auspichi il ritorno a una politica strettamente isolazionista degli Stati Uniti, che non sembra peraltro all’orizzonte, è evidente come gli interessi americani siano chiaramente in gioco in entrambi gli scenari e trascurare le conseguenze di un abbandono dell’Ucraina al suo destino (cioè al volere di Mosca) sarebbe tutt’altro che realista, oltre che discutibile a livello di principi.
Per Putin l’annessione della Crimea, ratificata da un plebiscito accuratamente orchestrato, e l’appoggio politico e militare ai gruppi separatisti nel Donbass sono solo i passaggi preliminari per arrivare a Kiev e collocarsi al centro della geo-politica occidentale. Un cavallo di Troia senza cui la Russia resterebbe una potenza asiatica all’ombra di Pechino, schiacciata tra democrazia e autoritarismo e senza un ruolo definito a livello internazionale. Il trauma della dissoluzione dell’Unione Sovietica è ancora oggi il motore della politica estera del Cremlino: la Russia è una potenza regionale con velleità da superpotenza e mezzi inadeguati allo scopo. Solo la diplomazia superlativa del tandem Putin-Lavrov, basata essenzialmente sul fatto compiuto, consente a Mosca di proiettare un’immagine amplificata del proprio potenziale. È nell’interesse di tutti una Russia recuperata alla democrazia e al rispetto delle norme del diritto interno e internazionale. In attesa di tempi migliori su entrambi i fronti un sano realismo consiglia di non sottovalutarne le intenzioni e di contrastarne per tempo le velleità sull’Ucraina. Purtroppo la diplomazia europea continua ad essere un concetto astratto e quella americana risente della volatilità delle posizioni presidenziali sul dossier russo-ucraino. Nubi nere si addensano su Kiev.