Il combattimento televisivo tra Matteo Salvini e Matteo Renzi che è andato in scena martedì in seconda serata a Porta a Porta, sotto la guida misurata di Bruno Vespa, secondo una opinione diffusa, s’è chiuso pari e patta, anche se non mi risulta siano state predisposte valutazioni dell’audience come si usa fare in Usa. Ciò non toglie che i due personaggi abbiano evidenziato personalità diverse e adottato strategie diverse, su cui si sono soffermati i commentatori; ma al di là di questo, la differenza, non per nulla ossessivamente enfatizzata da Salvini, è stata nella rappresentatività attribuibile ai due in base al sondaggio de La7 del lunedì immediatamente precedente: 33 per cento per la Lega e sul 4 per Italia Viva. L’impressione costante è che sul ring si confrontassero due pugili appartenenti a categorie completamente diverse, cioè un Salvini peso massimo ed un Renzi peso leggero, sicché i colpi del primo risultavano obiettivamente più duri ed incisivi di quelli del secondo.
Non è stata questione di capacità dialettica, che qui il fiorentino l’ha spuntata sia pur di misura; e neppure di ricchezza e puntualità di informazione, ché qui il milanese ha mostrato qualche difficoltà, sì da sfuggire col cambiare argomento. No, è stato l’appeal ai rispettivi bacini elettorali, del tutto sproporzionati, a giocare alla fine, perché concludere come si è fatto che nessuno degli spettatori avrebbe cambiato idea, significa che Salvini si è riportato a casa otto elettori di contro all’uno conservato da Renzi.
Il punto di fondo rimane sempre lo stesso, anche se non soprattutto per Renzi: come spiegare il consenso di cui gode, dopo il “suicidio perfetto”, il segretario della Lega, di un terzo delle intenzioni di voto espresse dagli italiani. È ridicolo, per non dire altro, continuare a esorcizzarlo, come se Salvini fosse il diavolo in persona che con qualche rito apposito potrebbe essere cacciato dal corpo sano del popolo. D’altronde, non si tratta solo di Salvini, ma del centrodestra ormai ricostituitosi, per cui la deriva “di destra estrema”, per non dir altro, sarebbe attribuibile a quasi la metà di quelle intenzioni di voto. E questo senza contare che lo stesso quinto delle intenzioni di voto di cui godono i 5Stelle, non è classificabile facilmente su una linea orizzontale che vada da sinistra a destra.
Si ignora volutamente da parte di un Pd ormai completamente squilibrato a sinistra, che Salvini non ha guadagnato e non conserva il consenso solo o principalmente in forza della sua politica restrittiva sull’immigrazione, che fra l’altro è radicata su una diffusa sofferenza identitaria; bensì su un programma articolato, che va dalla sicurezza all’autonomia, dalla anticipazione dell’età pensionistica alla riduzione delle tasse, dalla maggior indipendenza da una Unione europea dominata dall’asse franco-tedesco ad una revisione del patto di stabilità.
Qui entra in gioco il fattore ceto medio, che nella storia delle democrazie occidentali ha sempre giocato un ruolo fondamentale. Dire, secondo una lezione grandemente condivisa, che proprio il ceto medio è stato alla base dell’avvento costituzionalmente legittimo del fascismo e del nazismo, cioè per la via elettorale, è corretto; ma concludere che per questo non ci si deve fidare del voto popolare, è negare il principio base di tali democrazie. A prescinder d’altro, cioè dal contesto convulso del primo Dopoguerra, oggi ci sono robuste costituzioni che trovano la loro traduzione in molteplici istanze istituzionali, condivise da tutti, tranne irrilevanti frazioni, sicché prospettare possibili involuzioni autoritarie è una favoletta da comunista della prima ora. Se n’è schiamazzato per Segni, Cossiga, Berlusconi, eppure il classico campanello di primo ministro è passato di mano in mano, senza alcun fragore di sciabole.
Non c’è assolutamente il rischio che lo spostamento del ceto medio possa far rinasce il fascismo sia pure in salsa leghista, ma certo può segnare la vittoria della destra, come effettivamente sta succedendo. Questo effetto è incredibilmente dovuto meno alla attrazione della destra e più alla reazione ad una accentuazione della sinistra, come succede oggi in Italia, con quello che è stato giustamente definito come il governo più a sinistra della storia della Repubblica.
Certo non è facile definire il ceto medio, non lo è stato mai, ma non lo è ancor più oggi, dove una lettura nettamente classista della società riesce anacronistica. Ma in effetti il ceto medio non è mai stato una classe, ma appunto un ceto, caratterizzato da una percezione complessiva di status, di cui il dato economico era e resta solo un dato importante; percezione di una posizione intermedia vissuta fra chi sta sotto e chi sta sopra, sì da avere una identità più per esclusione che per inclusione. È tendenzialmente conservatore, ad eccezione di quella parte più modernizzata della zone centrali delle grandi città; e qui nella difesa dei valori tradizionali può trovare una sorta di alleanza proprio nei settori della popolazione meno privilegiati. Il “prima gli italiani”, con l’esplicito sottinteso di una difesa dell’identità storicamente conquistata e tradotta nello stesso paesaggio segnato dalle molteplici testimonianze di tre millenni di storia, esercita un richiamo estremamente ampio, risvegliando un orgoglio di appartenenza alla terra dei propri padri, che è pericoloso sottovalutare.