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Il triste oblio sul 1989: perché l’Occidente non celebra, né ricorda, il trionfo del suo modello

Non è passato molto tempo. Solo 30 anni. Il 4 giugno 1989 la Solidarnosc di Lech Walesa, nella sorpresa generale, otteneva un successo travolgente nelle prime elezioni polacche parzialmente libere in quarant’anni. Conquistava tutti e 161 i seggi in palio alla Camera bassa (il 65 per cento dei seggi era riservato alla coalizione comunista) e 99 seggi su 100 al Senato.

Il regime polacco, forte dei seggi assegnati “di diritto”, contava ancora di poter mantenere le redini del potere, concedendo a Solidarnosc ruoli di governo secondari, ma la situazione sfuggì presto di mano. Il 24 agosto 1989 si insediava a Varsavia Tadeus Mazowiecki, il primo premier non comunista. Il 23 ottobre cadeva il comunismo in Ungheria, il 9 novembre cadeva il Muro di Berlino e il 28 novembre si liberava la Cecoslovacchia.
Il 22 dicembre veniva deposto Nicola Ceausescu e per la prima volta dopo quarant’anni i rumeni poterono tornare a festeggiare il Natale.

Fu un anno incredibile. Perché non stiamo leggendo niente sul 1989 in questi giorni? Perché non è un susseguirsi di speciali televisivi, film, fascicoli allegati ai giornali? Perché, nel trentennale, i riferimenti alla caduta del comunismo non ricorrono con naturalezza nel dibattito politico? Possibile che riteniamo che un passato così recente che ha segnato la storia del nostro continente e la vita di così tante persone non abbia già più niente da dirci?

Eppure, la Seconda Guerra Mondiale, e con essa gli episodi abietti del fascismo e del nazismo, vengono ripercorsi ad ogni ricorrenza ed imponenti risorse economiche ed intellettuali sono state rivolte a raccontare il male e a celebrare il bene di quel periodo storico. Libri, film, opere teatrali, rassegne fotografiche e così via – lavori, il più delle volte, di altissimo valore e a cui si sono dedicati alcuni degli autori più celebrati.

C’è veramente da chiedersi come mai, allora, lo stesso tipo di lavoro non è stato fatto con il comunismo? Quanti scrittori, artisti, registi avrebbero potuto trovare spunti nelle tantissime storie di quarant’anni di dittatura socialista?

Nessuno, invece, ci racconta degli eroi polacchi, tedeschi dell’Est, cechi, slovacchi, ungheresi, lituani, rumeni e del loro ruolo nella liberazione dal comunismo. Nessuno ci parla delle ristrettezze, delle quotidiane ingiustizie, delle vite rovinate di milioni e milioni di persone che si sono trovate a vivere all’ombra della stella rossa. E parimenti nulla troviamo, in buona sostanza, nel campo dell’approfondimento giornalistico. È molto difficile che ci capiti di leggere o di vedere dossier sull’oppressione dell’Europa orientale e sulla sua liberazione.

Eppure il 1989 ha rappresentato, ben più del 1993, la vera “unificazione europea” – con la liberazione di metà del nostro continente dalla dittatura e l’inizio di una nuova era in cui tantissime persone sono state padrone delle proprie vite e del proprio destino.

È stato il trionfo più netto ed incontrovertibile del modello politico, economico, sociale e culturale occidentale. Il nostro modello ha mostrato, nell’Europa occidentale, la propria superiorità sul comunismo tanto dal punto di vista della creazione di ricchezza, quanto da quello dello sviluppo umano e, successivamente, ha mostrato di poter innescare simili percorsi di crescita anche nell’Europa orientale, una volta liberata.

Insomma, il 1989 è stato un anno trionfale per il continente europeo; eppure è come se ci facesse fatica ricordarlo.

Per alcuni è più che comprensibile. I primi a voler mettere una pietra sopra l’89 sono, certamente, coloro che a sinistra, anche quando non apertamente comunisti, a lungo hanno comunque flirtato con i concetti, la cultura e con gli stilemi del marxismo; tutti quelli che, anche quando non apertamente comunisti, comunque traevano benefici dal fatto che quel tipo di “avanguardia” fosse attivamente in campo.

La maggior parte ha saputo oggi riciclarsi su riferimenti politici più al passo con i tempi; sul passato, meglio sfumare un po’ e ricordare più solamente gli aspetti in grado di suscitare ancora empatia – la “difesa” dei “diritti dei lavoratori”, l’impegno “a favore dei più deboli”, il ricordo romantico delle feste di partito o delle case del popolo, e così via. Insomma è bene che l’immagine che resti del comunismo è Benigni che prende in braccio Berlinguer, piuttosto che i carri armati di Budapest e di Praga, il carcere e le condanne a morte per i dissidenti, i soldati che dalle torrette sparavano a chi provava a scavalcare il muro.

Tuttavia, sarebbe sbagliato, attribuire solamente alla sinistra filo-comunista le ragioni dell’oblio sul 1989. Un certo tipo di atteggiamento non sarebbe bastato, se dall’altra parte ci fossero state forze politiche effettivamente motivate a fare loro il significato politico della fine del comunismo e a rivendicare le storiche pagine scritte dall’Est Europa trent’anni fa.

Il fatto è che la politica moderata e conservatrice del mondo occidentale in questi anni è stata totalmente riluttante rispetto alla prospettiva di creare una “narrazione alta” della propria missione politica, mostrandosi più interessata a giocare le proprie carte nell’arena politica quotidiana.

Così, mentre la sinistra continua a celebrare, come se fosse ieri, il “proprio” trionfo sul nazi-fascismo, le forze di centro-destra e di destra non hanno particolarmente provato a cogliere la straordinaria opportunità che il crollo dei regimi comunisti forniva loro per rivendicare un primato morale e culturale nella rappresentanza dei valori di libertà politica ed economica.

Il centrodestra italiano, poi, ha contribuito a modo suo a tradire l’eredità dell’89, ignorando la potenziale autostrada politica rappresentata da un rapporto privilegiato con i paesi dell’Europa dell’Est. Un politico come Berlusconi avrebbe avuto esattamente il profilo che serviva per essere riconosciuto come “leader europeo” dai paesi usciti dal comunismo, accrescendo così il ruolo internazionale proprio e dell’Italia. Ha preferito, invece, un discutibile rapporto con il Cremlino, del quale si stenta a percepire qualsiasi frutto concreto.

La sensazione è che, nel centrodestra italiano e non solo, un atteggiamento frequente sia quello di considerare il 1989 addirittura come un incomodo, un cambiamento “esterno” che ha fatto venire meno le certezze del passato. Non sono pochi ad avere nostalgia di un mondo che, almeno visto attraverso il filtro della memoria, appariva più “semplice” e che per il solo fatto di essere nati nel posto giusto sembrava garantire un diritto automatico al benessere.

Insomma, per molti il 1989 è l’inizio della “globalizzazione”, una parola che, purtroppo, oggi sembra far paura a destra almeno quanta ne fa a sinistra. Ma a ricordare con piacere l’89 non c’è nemmeno il mondo del “progressismo sociale” e lo si misura nel sostanziale razzismo antropologico che tutto quel mondo sembra ancora coltivare contro le dinamiche politiche dell’Europa dell’Est.

La verità è che la “politica bene” non ha mai veramente accolto – in termini sostanziali e con pari dignità – gli europei dell’Est all’interno del consesso politico europeo. Per i “liberal democrats” e la “gauche sociétale” alla moda, quelle ad Est dell’Oder Neisse sono società scomode, perché non particolarmente permeabili ai loro dogmi ideologici. Popoli usciti dal comunismo ed orgogliosi delle loro rivoluzioni democratiche e nazionali non sono, in effetti, i terreni più fertili per i progetti di ingegneria culturale e sociale del progressismo di oggi.

Insomma, un po’ per tutti, era quasi meglio se l’89 non ci fosse stato, ma siccome c’è stato, meno se ne parla e meglio è.

Tuttavia questo è non solamente ingiusto nei confronti di tutti coloro che hanno sofferto l’oppressione comunista e di coloro che da quella tragedia, con tanti sacrifici, hanno cercato di risollevarsi. Questo è soprattutto culturalmente suicida per l’Occidente che, rinunciando a celebrare la vittoria contro il comunismo, rinuncia fondamentalmente a celebrare la propria anima – quel modello di democrazia, pluralismo e libertà economica che ha garantito agli indiivdui benessere e la possibilità di esprimere la propria personalità.

Per questo, chi tiene al concetto occidentale di libertà ha oggi il dovere di fare qualcosa perché il ricordo di quell’anno straordinario resti vivo – e con esso la piena comprensione del suo significato.