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Il “tutti a casa” è solo falsamente una misura egualitaria. E la vera solitudine, disperata, di chi ci lascia

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Beata solitudo, sola beatitudo. È questa una massima tardo-medievale che mi è tornata all’orecchio dalla giovanile infarinatura latina, con la sua duplice valenza: quella originaria, religiosa, di una dimensione per la ricerca di Dio; e quella attuale, laica, di una opportunità per l’introspezione sull’io. Nulla di tutto questo al tempo del coronavirus, dove la solitudine non è una scelta, ma una condanna, sancita e consacrata da una pletora di decreti leggi, decreti del presidente del Consiglio, ordinanze delle più svariate autorità, circolari, che ci hanno privato da un giorno all’altro della gelosa libertà di uscire e rientrare in casa liberamente, non per nulla garantita, addirittura con una riserva di legge assoluta, dalla nostra Costituzione. Ma in fondo il tutti a casa richiama quella caratteristica italiana di una ancestrale attrazione per la sede della propria famiglia, prima, quella originaria, padre e madre; poi quella acquisita, marito e moglie, sempre con la coda dei figli e dei nipoti. Non per nulla fu la voce che suonò univoca all’indomani dell’armistizio, quando un intero esercito si sciolse come neve al sole, lasciandosi alle spalle frotte di uomini dispersi per i mille cammini della penisola, con l’occhio teso sull’orizzonte, alla ricerca dei campanili natii. Solo che allora la casa era la speranza della salvezza, oggi è una prigione da cui non si può uscire, tanto da potersi permettere solo un’ora d’aria, girandovi intorno in un cerchio strettissimo, sempre soli, a meno che non si tenga per mano un bambino.

Eppure, la casa non è solo un luogo fisico, ma anche psicologico, una sorta di utero materno, dove ci si sente sicuri, posti al centro del proprio mondo di affetti in una sorta di abbraccio comune, tant’è che se mai potessimo scegliere, lì vorremmo chiudere gli occhi, ancora pieni dei volti delle persone care. Perché, dunque, il tutti a casa dovrebbe suonare come una condanna alla solitudine, sì da attivare una fitta elucubrazione nei mass media, con l’ausilio dei soliti tuttologi, intervistati nei loro accoglienti salotti foderati di libri? La solitudine viene data per scontata, con una proliferazione di ricette per mitigarla, a misura dell’abitudini della gente cui la vita è andata sostanzialmente bene: stare un po’ con se stessi, leggendo e ascoltando musica o addirittura tenendo un diario o scrivendo le proprie memorie; continuare la precedente vita di relazione via telefonica o internet, casomai accompagnata dalla vivacità delle immagini. Questo confortato da un tono moraleggiante, che ricalca le implorazioni dei tempi delle epidemie, di prender atto della limitatezza umana e di cambiar vita: di uscirne mutati e migliori. Se, ascoltandoli, mi fosse parso di ritrovarmici, sarebbe nato in me il dubbio, che tutto questo potesse essere disponibile ed utilizzato dalla c.d. gente perbene, quella con una buona istruzione, una piacevole atmosfera privata, una gratificante professione, una comunione di affetti, una assestata vita sociale, certo qualcosa solo in parte dovuta alla nascita, ma molto ad una faticosa conquista, che, peraltro, ha finito per accrescere la propria auto-sistema.

Il tutti a casa è solo falsamente una misura egualitaria, perché non tutti hanno una casa, non tutti hanno una casa confortevole, non tutti hanno una casa capace di far convivere giorno e notte nonni, genitori, figli, che vi si ammucchiano alla meglio, stringendosi in spazi fisici appena sufficienti per dormire. Ed è l’addensamento quotidiano, senza poter godere del più piccolo spazio personale, con ad unico sfogo la televisione, che rende interminabile il tempo, creando dissapori e malumori continui. Qui il problema è dato non dalla solitudine, ma paradossalmente dalla mancanza di solitudine, una costrizione fisica da cui non c’è fuga possibile, essendo la sola vita di relazione conosciuta e praticabile quella costruita attorno ad una attività lavorativa elevata a dimensione sociale, fra l’altro resa incerta proprio in quella riacquisita normalità rinviata di giorno in giorno dal serafico Borrelli.

C’è ormai un avvertimento che risuona da un canale televisivo all’altro, mantenere la guardia, con un chiaro riferimento alla posizione del pugile che alza i guantoni a copertura del volto, ma neanche il pugile più allenato può conservarla oltre un certo tempo, perché i muscoli si contraggono e diventano di piombo, lasciando cadere le braccia a filo dei fianchi. Il tempo non scorre uguale per tutti, accelerato per chi riesce comunque a riempirlo, rallentato all’estremo per chi lo ritrova vuoto e interminabile, privo come è di  qualsiasi strumento per poterlo occupare.

Non occorre, però, faticare per trovare la vera solitudine. C’è quella degli anziani rimasti soli, con ad aprire la lista quelli rifugiatisi in case di riposo, che si sono trasformate in dimore di morte; ma c’è soprattutto la sequenza interminabile dei deceduti, intubati o lasciati a spegnersi in un angolo, circondati da marziani resi del tutto anonimi dagli scafandri in cui sono calati, capaci solo di farfugliare, attraverso la maschera, parole che giungono smorzate agli orecchi dei morenti. È vero, come canta De André, che chi muore muore solo, ma l’umano sogno è di avere negli occhi i volti dei propri cari, cosa loro negata, per di più con la coda di funerali deserti e anonimi, casse imballate su una colonna funerea di camion dell’esercito. Come memoria collettiva della gente resterà questa immagine, che ad alcuni ricorderà la sfilata dei carri dei monatti nella peste manzoniana; ma come memoria individuale dei medici e degli infermieri rimarrà la struggente disperazione di quegli sguardi, a decine a centinaia a migliaia, lanciati come una ultima richiesta d’aiuto da coloro che già sapevano non poter essere accolta.