Ma resta l’ostacolo Merkel, mentre il Team Biden studia il ritorno all’engagement con Pechino
Con il bando di Huawei dallo sviluppo della rete 5G il governo Johnson ha portato a compimento una svolta che stava maturando da mesi, come anticipato da Atlantico Quotidiano nei diversi articoli del nostro Daniele Meloni.
Il ripensamento di Londra – a cui probabilmente hanno dato una spinta decisiva sia il cover-up di Pechino sul virus e l’offensiva propagandistica del regime in piena pandemia, sia la stretta su Hong Kong, in violazione della dichiarazione sino-britannica del 1984 – è anche certamente il frutto delle sanzioni e delle pressioni dell’amministrazione Trump. L’esclusione di Huawei dal 5G britannico può rivelarsi un game changer in particolare in Europa, mettendo ulteriore pressione agli altri governi europei – quello italiano in primis, come vedremo – per muoversi nella stessa direzione, o almeno prevedere limiti più stringenti per le compagnie cinesi. E può dare slancio alla complessiva strategia Usa per contrastare la crescente influenza di Pechino in Occidente.
Come anticipato da alcuni media americani e cinesi, questa settimana il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien si è recato a Parigi per una tre giorni di colloqui con rappresentanti di Francia, Germania, Italia e Regno Unito su diversi temi di sicurezza, tra cui appunto il ruolo di Huawei e Zte nello sviluppo del 5G.
“Il vento sta cambiando” in tutto il mondo, ha dichiarato ieri in conferenza stampa il segretario di Stato Mike Pompeo commentando la decisione di Londra. “Non credo che l’abbiano fatto solo per paura delle sanzioni americane, lo hanno fatto perché i loro team di sicurezza sono arrivati alle stesse conclusioni dei nostri”, ha aggiunto, spiegando che affidando l’infrastruttura strategica alle compagnie cinesi non si possono proteggere le informazioni sensibili, che rischiano di finire “nelle mani del Partito Comunista Cinese”.
L’ottimismo del segretario di Stato appare giustificato. Guardando solo ad un anno fa, gli Stati Uniti sembravano soli e inascoltati dai propri alleati, persino i più stretti. In pochi, fino a qualche mese fa, avrebbero scommesso che l’amministrazione Trump sarebbe riuscita a convincere qualcuno a cambiare rotta sul 5G cinese. E invece, “questo sta succedendo”, ha osservato Pompeo ieri: “Il vento sta cambiando, mi ricordo le vostre domande un anno fa, quando dicevate che erano solo gli Stati Uniti a preoccuparsi. Credo che il lavoro che stiamo facendo, che abbiamo potuto fare in tutto il mondo, sta rendendo chiaro a tutti che c’è un vero rischio di sicurezza” e “le più grandi compagnie di telecomunicazioni a condividere le nostre stesse preoccupazioni”.
Pompeo ha annunciato sanzioni, tra cui il diniego dei visti di ingresso negli Usa “ad alcuni dipendenti di società tech cinesi come Huawei, che forniscono sostegno materiale a regimi che sono impegnati in violazioni dei diritti umani ed abusi a livello globale”. Il segretario di Stato ha definito in particolare Huawei “un braccio dello stato di sorveglianza del Partito Comunista che censura i dissidenti politici e procede all’internamento in campi di detenzione di massa nello Xinjiang”. Un monito anche per le compagnie di telecomunicazioni di tutto il mondo che dovessero fare affari con Huawei: “State facendo affari con chi viola i diritti umani”.
Non è mancato un avvertimento a Pechino per la sua condotta predatoria nel Mar Cinese meridionale: gli Stati Uniti useranno “tutti gli strumenti a loro disposizione per sostenere i Paesi convinti che Pechino abbia violato la loro sovranità nel Mar Cinese meridionale”, dove “le cose stanno cambiando drammaticamente”.
Martedì, dando seguito a quanto annunciato settimane fa, il presidente Trump ha firmato l’Hong Kong Autonomy Act, una legge passata all’unanimità al Congresso che autorizza la Casa Bianca a sanzionare soggetti coinvolti nella stretta su Hong Kong, e un ordine esecutivo che pone fine al trattamento preferenziale garantito all’ex colonia britannica, che ora sarà trattata come il resto della Cina (“nessun privilegio speciale, nessun trattamento economico speciale, nessuna esportazione di tecnologie sensibili”). Nella conferenza stampa al Rose Garden in cui ha tra l’altro ribadito di ritenere la Cina “pienamente responsabile di aver nascosto il coronavirus e averlo diffuso nel mondo”, e ricordato le misure adottate contro Pechino (“nessuna amministrazione è stata più dura con la Cina”), Trump è tornato anche sui rischi delle “inaffidabili” compagnie di telecomunicazioni cinesi, citando la decisione di Londra e un solo altro Paese – l’Italia – lasciando intendere che possa essere il prossimo a sbarrare la strada a Huawei.
“Abbiamo convinto molti Paesi, molti Paesi, e l’ho fatto in gran parte di persona, a non usare Huawei perché pensiamo che sia un rischio per la sicurezza. Un grosso rischio per la sicurezza. Ho dissuaso molti Paesi dall’utilizzarla. Se vogliono fare affari con noi, non possono usarla. Proprio oggi, credo che il Regno Unito abbia annunciato che non la useranno. Era una cosa rimasta nell’aria per molto tempo, ma hanno deciso. E guardate l’Italia; guardate molti altri Paesi”.
Nella sua tre giorni parigina, il consigliere per la sicurezza nazionale O’Brien ha incontrato l’ambasciatore italiano Pietro Benassi, consigliere diplomatico del premier Conte. Temi al centro dell’incontro, come specificato dallo stesso O’Brien sul suo profilo Twitter ufficiale, con tanto di foto, “la riapertura delle nostre economie, Cina e sicurezza del 5G”.
La scelta di Tim di escludere Huawei dalle gare in Italia e in Brasile e la decisione del governo Conte di utilizzare il “Golden Power” sulle forniture di Huawei a Tim e WindTre può legittimamente far pensare che anche l’Italia si stia avviando a soddisfare le richieste di Washington. La stretta italiana sul 5G cinese è contenuta, come riportato da Formiche.net, in un documento di tre pagine arrivato sul tavolo del Consiglio dei ministri dello scorso 6 luglio: “Si tratta di linee guida, stilate dalla segreteria generale di Palazzo Chigi e dalla commissione di esperti sul Golden Power, in accordo con il Dis, per richiedere nuove, stringenti misure agli operatori delle telco italiane che di fatto rendono insostenibile, se non impossibile, la collaborazione con aziende cinesi nella rete 5G”. Non un bando formale, dunque, ma una lista di regole, confida un alto funzionario di Palazzo Chigi a Formiche.net, “a dir poco proibitiva” non tanto per i fornitori, quanto per gli operatori che scelgano di operare con Huawei o Zte.
In un altro tweet il consigliere O’Brien ha lasciato traccia (anche fotografica) anche dell’incontro con la controparte tedesca, Jan Hecker. Leggermente diversi i temi del colloquio menzionati: “cooperazione nella difesa e burden sharing” (Nato e spesa militare), “sicurezza energetica” (dipendenza dalla Russia), “Afghanistan” e anche in questo caso “Cina e sicurezza del 5G”.
Tra l’altro, resta aperta anche la questione Nord Stream 2: ieri Pompeo ha annunciato nuove sanzioni contro le compagnie coinvolte anche indirettamente nella costruzione del gasdotto (“get out now or risk the consequences”).
Ma se Roma si sta piegando e Parigi sembra tentare una via di mezzo (non ha messo al bando la tecnologia cinese ma ne scoraggia l’utilizzo), l’osso duro resta Berlino, fortemente recalcitrante a ripensare la sua strategia di sviluppo della rete 5G che prevede il pieno coinvolgimento delle compagnie cinesi. Anzi, come rivelato giorni fa dal quotidiano tedesco Handelsblatt, la cooperazione tra Deutsche Telekom (di cui il governo tedesco possiede una quota del 14,5 per cento) e Huawei si sarebbe addirittura rafforzata, con la cancelliera Merkel che sta dispiegando tutto il suo peso politico per respingere perplessità e pressioni da parte della sua stessa maggioranza e del suo stesso partito.
Tra queste voci, via Twitter quella di Norbert Röttgen, esponente di spicco della Cdu e presidente della Commissione affari esteri del Bundestag, per il quale il dietrofront di Londra “fornisce importanti lezioni per la decisione della Germania. Sottolinea giustamente che laddove è coinvolta la tecnologia moderna, i temi economici e di sicurezza non possono essere trattati separatamente. Mostra inoltre come risponde la Cina, cioè con le minacce, evidenziando la necessità di solidarietà europea”. E in un altro tweet: “L’ironia: le aziende europee non sono autorizzate a implementare il 5G in Cina. L’Ue dovrebbe essere chiara nello schierarsi con il Regno Unito su questo”.
Critico, su Twitter, anche l’analista Ulrich Speck del German Marshall Fund di Berlino. Se infatti la Merkel considera finiti i tempi in cui i tedeschi, e gli europei continentali, potevano fidarsi di americani e inglesi, per Speck “sono finiti i tempi in cui la Germania poteva fare affari senza considerare la politica. Berlino non può dare per scontato un ordine internazionale generoso (garantito dagli Stati Uniti); deve agire in modo da rafforzare l’ordine liberale, non indebolirlo ignorando l’impatto geopolitico del suo comportamento”. Esattamente quanto da anni andiamo ripetendo su Atlantico Quotidiano: la politica tedesca – economica, europea, estera – è insostenibile dal punto di vista geopolitico, esporta squilibri e reca danno all’ordine internazionale liberale.
Certo, con Londra Washington si è garantita l’obiettivo minimo: i “Five-Eyes” (e in più, forse, l’Italia). Ma se il dietrofront del governo Johnson mette una certa pressione agli altri alleati europei, molto dipenderà dalla posizione tedesca. Se Berlino dovesse confermare un ruolo significativo per Huawei nella rete 5G, anche se in aree “non-core”, ciò incoraggerebbe altri Paesi europei ad adottare un approccio simile. Con la Francia nel mezzo, che da una parte non vuole ignorare gli avvertimenti Usa, ma dall’altra nemmeno perdere terreno da Berlino nei rapporti con la Cina.
Come abbiamo osservato, l’economia tedesca è particolarmente esposta alla Cina e la cancelliera Merkel non ha alcuna intenzione di compromettere i rapporti con Pechino, né di rinunciare alla sua ambizione di posizionare l’Europa “tra le grandi potenze Cina e Stati Uniti”, mettere sul giusto binario i rapporti Ue-Cina prima di dare l’addio al cancellierato e alla vita politica attiva. È una ferma sostenitrice della politica di engagement con Pechino, anche se la diplomazia aggressiva del regime cinese durante la pandemia e la stretta su Hong Kong hanno complicato non poco le cose. La sensazione, sul 5G come sull’accordo sugli investimenti bilaterali, è che voglia temporeggiare fino a novembre, quando si terranno le presidenziali americane. Con Joe Biden alla Casa Bianca, infatti, si aprirebbe una prospettiva di progressivo allentamento delle tensioni Usa-Cina, aprendo maggiori spazi di manovra anche per Berlino.
Contrariamente ad altri analisti, infatti, riteniamo che una presidenza Biden non sarebbe che un terzo mandato di Obama: ritorno all’appeasement con il regime di Teheran (e nell’accordo sul programma nucleare) e all’engagement con il Partito Comunista Cinese.
Conferme in questo senso sono arrivate martedì scorso dalla column di Walter Russell Mead sul Wall Street Journal, nella quale il politologo ha riportato le sue impressioni da una sua conversazione con Antony Blinken, consigliere di politica estera di Biden.
Il Team Biden è “fiducioso che il programma Democratico dei vecchi tempi porterà al successo all’estero e in patria”. Soprattutto in politica estera, questo “ottimismo” si fonda sulla “fiducia nei classici pilastri della politica Democratica dell’era della Guerra Fredda”. L’analisi di Blinken, e presumibilmente di Biden, è che “mentre l’ascesa della Cina e la svolta della Russia verso il lato oscuro complicano la politica estera, le idee e le istituzioni dell’ordine liberale non falliscono perché il mondo sta cambiando radicalmente, ma perché il sistema liberale globale è stato privato di un ingrediente vitale negli anni di Trump: il sostegno americano”. Insomma, la colpa dell’instabilità è solo di Trump. Basterà quindi ritornare ai “principi del multilateralismo liberal” per “portare una massa critica delle potenze del mondo in un ampio allineamento con gli obiettivi chiave degli Stati Uniti”. Ma a nostro avviso si tratta di un clamoroso errore di prospettiva, che fa a pugni con la realtà del passato recente. Se la diagnosi del Team Biden fosse corretta, infatti, il multilateralismo liberal avrebbe funzionato già negli otto anni di Obama. Al contrario, il mondo sta cambiando radicalmente ed è la sfida della Cina (e della Russia) alla leadership Usa e all’ordine liberale a rendere instabile il sistema. Il multilateralismo liberal ha nascosto la vera natura di questa sfida per anni, mentre Trump l’ha presa di petto.
Ma se questa è l’analisi di Biden e dei suoi massimi consiglieri, da una sua presidenza non possiamo che aspettarci un ritorno alla politica di engagement con Pechino. Il tema della sicurezza del 5G cinese resterebbe sul tavolo, ma non nei termini ultimativi impostati dall’amministrazione Trump.