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Il vero dramma dei partiti: la selezione della leadership e la (non) democrazia interna

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Finalmente il Partito democratico si è dato un nuovo segretario, legittimato da elezioni primarie e quindi autorizzato ad esercitare una leadership piena e, forse, senza troppi ostacoli. Ne siamo felici, non tanto per amore verso il Pd o Nicola Zingaretti, ma perché questo passaggio dovrebbe, (il condizionale è d’obbligo), permettere ai Dem di finirla di ammorbare l’Italia con le loro beghe di cortile e di iniziare ad assumersi, possibilmente con qualche contenuto politico, il ruolo affidato loro dagli italiani. Ovvero, l’opposizione all’attuale governo. È meglio tuttavia non esagerare con l’ottimismo, in quanto l’autoreferenzialità è una malattia non ancora debellata dalle parti del Pd e di tutti i suoi supporter collaterali, giornalisti e personaggi dello spettacolo onnipresenti in tutte le marce.

Fin dalla defenestrazione di Achille Occhetto, a sinistra hanno sempre preferito discutere dei loro problemi interni piuttosto che di quelli del Paese. In sostanza, un congresso permanente e strisciante che dura da una ventina di anni circa. Non bisogna poi escludere qualche sorpresa da parte di un Matteo Renzi ormai pieno di lividi, ma proprio per questo, ancora più incattivito. Oltre a querelare mezzo mondo, potrebbe provocare qualche ronzio nelle orecchie di Zingaretti, un po’ come quelle piccole zanzare che ci tengono compagnia nelle afose notti d’estate. Il suo “Nicola non mi tema” ricorda molto quel “Enrico stai sereno”, rivolto al povero Letta. Si vedrà, strada facendo, ma nel frattempo non sono mancati i complimenti, anche esterni al perimetro della sinistra, per una prova di democrazia e partecipazione quali sono state le primarie del Pd. Se il centrodestra di vecchia generazione e soprattutto quello che era il suo partito-guida, vale a dire Forza Italia, ha costantemente scartato qualsiasi forma di coinvolgimento della base per eleggere leader e classe dirigente, il Partito democratico quantomeno ha provato e prova, pur fra mille imperfezioni, a dare voce al proprio popolo. Ciò deve essere riconosciuto con onestà intellettuale, mentre Forza Italia non ha fatto altro, nella sua ormai più che ventennale storia, che vivere all’ombra di un solo capo e di alcuni cerchi magici o tragici, alternatisi nel trascorrere del tempo. Se un determinato cesarismo e l’accettazione supina di molti potevano avere un senso un po’ di anni fa, perché il potere era lì e i voti pure, oggi non si comprende come mai un partito dotato ancora di qualche energia si lasci trascinare nel declino assieme al proprio fondatore. Qualcuno, come Giovanni Toti, inizia a capire la situazione, ma le acque rimangono momentaneamente stagnanti.

Il Pd è riuscito invece ad accantonare il renzismo o perlomeno sta tentando di imboccare una strada diversa. Certo, al di là dei trionfalismi di alcuni Dem, le primarie Pd non funzionano mai come un orologio svizzero. Le primarie che incoronarono Bersani prima e Renzi dopo non furono prive di qualche ombra e certe storture non sembrano essere state corrette per l’ultima consultazione che ha premiato Nicola Zingaretti. C’è sempre il sospetto di una procedura piuttosto blanda e poco controllata che consentirebbe, per esempio, di ripetere il voto in seggi diversi. Alcuni paiono accompagnati con la promessa di qualche aiuto assistenziale, come quei gruppi di immigrati che probabilmente ignorano persino cosa sia il Pd, chi siano i suoi candidati e come si muova la politica italiana. La democrazia interna del M5S è ancora più buia e fumosa di quella degli eredi del Pci-Pds-Ds e di Forza Italia. Fra parlamentarie e piattaforma Rousseau, i grillini se la suonano e se la cantano tra di loro e nessuno, dall’esterno e talvolta anche dall’interno, se non si è di casa presso gli uffici della Casaleggio & Associati, può capire fino in fondo la natura del corpo elettorale e la reale affluenza al voto. Davanti a tutto questo, c’è chi rimpiange, con qualche ragione, i congressi dei vecchi partiti della Prima Repubblica, che venivano celebrati in modo quasi solenne. Le furbate avvenivano anche allora tramite i signori delle tessere, che riuscivano a prevalere all’ultimo minuto, portando in dote il sostegno di tanti utili sconosciuti. Dobbiamo però ammettere come il personale politico di quell’epoca, oltre agli inevitabili ras del territorio, fosse composto anche da persone competenti, provenienti dalla gavetta degli enti locali e già legittimati da numerose elezioni amministrative. Oggi solo poche formazioni politiche ricorrono ai congressi vecchia maniera, ma alcune di queste riportano in auge solo il peggio della Prima Repubblica. Durante il recente congresso di +Europa, a detta degli stessi militanti del movimento di Bonino e Della Vedova, pare che un pullman di sconosciuti, organizzato dall’infaticabile Tabacci, abbia determinato l’elezione del nuovo segretario. La democrazia interna dei partiti italiani sarebbe oggi di gran lunga migliore, se solo si fosse dato ascolto a quei pochi, come Daniele Capezzone nel centrodestra che fu, che proponevano primarie sul modello americano. Primarie regolate da leggi e requisiti validi per tutte le organizzazioni politiche, che ridurrebbero al minimo la possibilità di imbrogliare.

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