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Il Vesuvio val bene una mostra. A Napoli ecco le suggestioni provocate dal vulcano

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Il Vesuvio val bene una mostra. E così fino al prossimo 29 settembre a Napoli, alla Certosa e Museo di San Martino, è visibile l’esposizione intitolata “Vesuvio quotidiano-Vesuvio universale”, curata da Anna Imponente, in collaborazione, per la parte storica, con Rita Pastorelli, organizzata dal Polo museale della Campania con Scabec, la Società campana beni culturali, con il sostegno dell’Associazione Amici di Capodimonte e dell’Associazione Metamorfosi. La mostra raccoglie alcune delle suggestioni suscitate nel corso del tempo dalla paura ancestrale della presenza incombente del Vesuvio sul paesaggio e sulla città, come espressione della potenza della natura e della fragilità umana. Secondo la curatrice, “nell’immaginario artistico la bellezza conturbante del vulcano è considerata simbolo tragico della catastrofe, montagna di fuoco che distrugge, ma che diventa vitale e rigeneratore”.

Nella Certosa di San Martino, uno dei più mirabili esempi del Barocco napoletano dalle cui logge e terrazze si gode la vista del vulcano che domina il golfo e la città, la rassegna presenta un centinaio di opere dal Cinquecento ad oggi, tra cui alcune delle più significative provenienti dalle raccolte del museo accanto ad altre di collezioni pubbliche e private. “Assieme alle testimonianze delle eruzioni del 1631, del 1754 e del 1872”, continua Imponente, “le opere contemporanee reinterpretano piuttosto un’ansia creativa e rigeneratrice che attraverso il tempo si traduce in prorompente vitalità. Lo sterminator Vesevo leopardiano (La ginestra, 3 – 1836) può infondere all’arte un flusso incomparabile di nuova energia, così come succede in natura per la fertilità della terra, alimentate entrambe da una forza cosmica in equilibrio tra distruzione e rigenerazione. Il titolo trae spunto da quello di una mostra di Stefano Di Stasio, Vesuvio quotidiano (San Gemini, 2016) e dal titolo del recente ritratto raccontato nel libro di Maria Pace Ottieri Vesuvio universale. I due termini contrapposti offrono l’idea dalla terribilità di una natura incombente e di una socialità che si sviluppa per esorcizzarne il pericolo”.

Si inizia con la cartografia cinquecentesca di interesse naturalistico, fra cui la preziosa stampa di Athanasius Kircher, tratta da Mundus supterraneus (Amsterdam, 1665), che presenta la fantasiosa immagine di un Vesuvio in sezione. Il percorso della mostra prosegue poi con una sezione dedicata ad alcune fasi della “carriera” del vulcano: le eruzioni del 1631, del 1754 e le altre che si susseguirono nel Settecento, del 1872. Attorno alle raccolte storiche, con opere emblematiche come L’Eruzione del Vesuvio del 1631 di Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro) di recentissima acquisizione, e al tema della sacra protezione, invocata per la salvezza con il settecentesco busto reliquiario di Sant’Emidio, protettore dei terremoti e dei cataclismi (Cappella del Tesoro di San Gennaro), con la raffigurazione di Castel Sant’Elmo e della Certosa di San Martino, si affiancano alcune opere contemporanee. Dall’eruzione del 1872 trae spunto una serie di immagini del paesaggio vesuviano dal vero di Giuseppe de Nittis, collocate in una sala dedicata, provenienti dalla Pinacoteca civica Giuseppe De Nittis di Barletta e da una collezione privata napoletana, tra i brani più emozionati dell’esperienza giovanile del pittore. Una selezione di dipinti tra Settecento e Ottocento viene completata dalle testimonianze artistiche di Carlo Bonavia, Pietro Fabris, Pierre Jacques Volaire, operanti al tempo del Grand Tour, che documentano le vedute “pirotecniche” del Vesuvio. Accanto ad essi opere di Tommaso Ruiz, di Antonio Joli, e altri artisti che dipingevano “all’ombra del vulcano”.

In una sala a parte ecco l’ Allegoria della prosperità e delle Arti nella città di Napoli di Paolo de Matteis, del primo Settecento, insieme a una serie di galanterie e servizi in porcellana della fabbrica ferdinandea caratterizzate dal tema del Vesuvio in eruzione. Per la prima volta viene anche integralmente esposta la preziosa serie di cento gouache, acquerelli e stampe, consacrate all’immagine del Vesuvio, donata nel 1956 da Aldo Caselli, fra cui tre tavole tratte dal volume di William Hamilton, ambasciatore presso Ferdinando IV: iCampi Phlegraei: observations on the volcanos of the Two Sicilies, Londra 1776-1779. Il volume, con tavole di Pietro Fabris, proveniente dalla Biblioteca Nazionale Vittorio Emauele III di Napoli, è anch’esso esposto in mostra. In dialogo con le opere antiche una cinquantina di opere moderne e contemporanee: le terrecotte smaltate di Leoncillo Leonardi, della fine degli anni Cinquanta, in cui il gesto artistico impresso alla materia argillosa acquista una scabra plasticità informale; la combustione di Alberto Burri Tutto nero (1956) che rimanda alle fratture e alle bruciature della terra; il ritratto Vesuvius (1985) di Andy Warhol che ritrae il vulcano “più grande del mito, una cosa terribilmente reale”; il Senza titolo (1996) di Jannis Kounellis in cui l’elemento del carbone concretizza la naturalità della materia povera; il dipinto Odi navali (1997) di Anselm Kiefer, contaminato da piombo agglomerato e bruciature, raffigurazione epica della sofferenza umana. Nel cortile di ingresso fanno da introduzione alla mostra le due sculture di Bizhan Bassiri (2006) Meteoriti nel cortile, installazione completata da Evaporazione rossa (2013), una sorta di astro solenne che domina la navata della Chiesa monumentale.

E le opere di Anna Maria Maiolino, artista italiana che lavora in Brasile, sono portatrici di un’energia esplosiva capace di modificare la materia del cemento e del raku. La mostra prosegue con le opere di Claudio Palmieri, le cui forme ceramiche contengono il flusso lavico che esplode invece sui dipinti; la scultura di Roberto Sironi fa parte della serie Fuoco, composta da calchi in bronzo di tronchi o rami d’albero bruciati trovati in natura; nelle grandi carte Adele Lotito si serve della evanescenza e della trasparenza del fumo per misurare e disvelare presenza e assenza; in Inferno (2018) l’artista belga Caragh Thuring trae ispirazione dalle antiche gouache napoletane, traducendole in una pittura pastosa con le silhouette sulla cima del Vesuvio, eredi della poetica del sublime. I dipinti di Stefano Di Stasio rispecchiano il suo stile tra simboli e metafore, affiorante dal mondo dell’inconscio e dell’onirico; le tempere su tela del napoletano Oreste Zevola riprendono in forme archetipiche e primitive le figure di santi e di sirene, di teschi e di vulcani fluttuanti nello spazio, legate all’immaginario popolare; nelle Geografie Temporali (2019) di Sophie Ko, artista georgiana che lavora a Milano, il pigmento si mescola alla cenere creando paesaggi mutevoli. L’esposizione è arricchita dalle foto di Antonio Biasiucci, maestro degli scatti sui vulcani attivi in Italia e del Vesuvio in particolare, di Giovanni De Angelis, che con Volcano rimanda al cratere come simbolo di improvvisi cambiamenti, di Maurizio Esposito, che documenta i roghi che nel 2017 hanno devastato il Parco nazionale del Vesuvio, e una “cartolina” di Riccarda Rodinò di Miglione, un gioco di riflessi nelle acque del Golfo e dalla installazione di art sound di Piero Mottola.

Lungo il percorso della mostra, in un piccolo ambiente, ecco la proiezione del cortometraggio di Maya Schweizer, “Insolite” (2019), realizzato con il sostegno del Goethe Institute: una suggestiva sequenza di immagini del Vesuvio attuali in dialogo con quelle dell’ultima eruzione avvenuta nel 1944, senza alcun nesso narrativo, ma immaginifica ed emozionante. Nell’ultimo giorno, per il finissage, venerdì 27 settembre, sarà presentato il catalogo della mostra, edito da Arte-m. Nella stessa occasione saranno riaperti al pubblico i Sotterranei gotici, misterioso ventre della Certosa, che racconta la storia della sua fondazione, simbolico “cratere” del complesso certosino, da cui affiorano i capolavori che questo conserva. A conclusione della presentazione del catalogo sarà proiettato “Sul vulcano”, il film documentario di Gianfranco Pannone.