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Immigrazione: oltre luoghi comuni e paragoni di matrice politica

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Intervista a Gabriele Campagnano

Gabriele Campagnano è fondatore e presidente del Centro Studi Zhistorica. Con oltre due milioni di visite all’anno e una pagina facebook seguita da 75.000 persone, Zhistorica mette a disposizione, in modo completamente gratuito, centinaia di approfondimenti storici ogni mese, oltre a 200 articoli specialistici presenti sul sito.

ADRIANO ANGELINI SUT: Visto che il tema dell’immigrazione è particolarmente caldo in questo periodo elettorale e visto che questa ondata migratoria dall’Africa e dai paesi del Maghreb, che sembra senza fine, spesso è stata paragonata all’emigrazione italiana verso le Americhe dei primi del ‘900 del secolo scorso, vogliamo provare a fare chiarezza?

GABRIELE CAMPAGNANO: Ci sono delle differenze sostanziali tra questi due fenomeni storici. Gli italiani, così come gli irlandesi, i tedeschi e gli altri immigrati, potevano sbarcare solo dopo essere stati sottoposti a una minuziosa ispezione e a una visita medica presso le strutture di Ellis Island, che operò dal 1892 al 1954. Al 2 per cento dei nuovi arrivati, nonostante le fatiche del lungo viaggio transatlantico, veniva negato l’ingresso per motivi fisici o per precedenti penali, ed era costretto a un immediato rimpatrio. I malati in condizioni gravi venivano portati presso l’Ellis Island Immigrant Hospital. Qui morirono circa 3.500 pazienti in trent’anni. Gli immigrati dovevano dimostrare, inoltre, di avere denaro contante sufficiente a mantenersi negli Stati Uniti (25 dollari a persona, l’equivalente di 500 euro odierni). Non c’erano sovvenzioni statali o sostegno governativo. Dovevano sperare di trovare lavoro e alloggio grazie ai compatrioti già presenti sul territorio. Per gli italiani che emigravano in Messico nel XIX secolo la situazione era ancora peggiore. Il chirurgo Pietro Tettamanzi, che lavorò a lungo in quella regione, scrive: “Un italiano che voglia raggiungere il Messico parte da Genova, dove il capitano chiede di solito 50 o 60 scudi a persona. Di conseguenza, le persone in possesso di un centinaio di scudi pensano di poterne avere ancora 40 o 50 per sostentarsi nel nuovo paese fino al momento in cui troveranno lavoro. Per il povero emigrato italiano, i problemi iniziano all’arrivo presso la rada di Vera Cruz, dove le navi gettano l’ancora”. Questo luogo, a detta del Tettamanzi e di altri testimoni diretti, è un vero e proprio ricettacolo di malattie e morbi. Vomito nero, febbri di ogni tipo, elefantiasi, colera. “Fra cure, costo dei mezzi per percorrere le 99 leghe che separano la rada dalla capitale e altri problemi, solo pochi riescono a raggiungere la città. Molti altri finiscono immediatamente i soldi rimasti e finiscono in mezzo alla strada a morire di fame e malattie.”

I migranti attuali, molti provenienti dalla zona subsahariana, affrontano, potenzialmente, dei pericoli maggiori (rispetto a un italiano degli anni ’20 diretto in America), sia nella porzione territoriale subsahariana che in quella mediterranea, e tuttavia hanno la certezza di poter sopravvivere a tempo indeterminato grazie al Welfare europeo anche nel caso di difficoltà nel trovare alloggio e lavoro. L’equiparazione tra i due tipi di immigrazione, così lontani in termini cronologici e geografici, ha una matrice esclusivamente politica. Si è arrivati al punto di costruire falsi report pur di creare empatia verso i migranti, come il famoso dossier dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano (1912) dove, un fantomatico paragrafo, reciterebbe: “Gli italiani non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci [..]” Di questo dossier in realtà non c’è alcuna traccia nei registri statunitensi. Per non parlare del fatto che l’alluminio, nel 1912, era molto costoso e non veniva certo utilizzato per costruire baracche.

AAS: Quali sono le rotte seguite dai migranti attuali per arrivare in Europa attraverso l’Italia?

GC: Le due porzioni più importanti del viaggio verso l’Europa sono quella trans-sahariana e quella mediterranea. Il tragitto terrestre attraverso il Sahara usa gli stessi percorsi utilizzati dalle carovane che portavano schiavi e altri beni verso le città costiere cartaginesi, romane e infine arabe (sebbene il termine “arabo” sia abbastanza generico). Una rete di commercio che si sviluppò in modo enorme con l’ascesa dell’Islam e la sua conquista di quei territori.

AAS: Vogliamo parlare del ruolo che i paesi arabi, in passato ma anche nel presente, hanno avuto su quelle rotte e soprattutto vogliamo chiarire il loro ruolo nello schiavismo nei confronti degli africani, in particolare di coloro che venivano dalla zona Subsahariana?

GC: A livello accademico, la tratta che possiamo definire “araba” o “sahariana” ha ricevuto le giuste attenzioni. Anche gli storici egiziani, marocchini e tunisini ne parlano (anche se poco volentieri). D’altronde, le carovane di schiavi sahariane e i mercati di Zanzibar sono state operative per un periodo molto più lungo rispetto alla tratta atlantica, circa tredici secoli contro tre, permettendo un traffico complessivo di schiavi che ammonta a circa 20 milioni di persone giunte vive nei mercati e altrettante, se non di più, morte lungo il percorso. Illuminanti, in questo caso, sono letture quali Slavery and Muslim Society in Africa di H.J. Fisher (1972), Slavery, Islam and the Jakhanke people of West Africa di L.O. Sanneh (1976) e Slavery in the Arab World di M.Gordon (1987). Bisogna anche pensare che l’Arabia Saudita ha abolito la schiavitù solo nel 1962, la Mauritania nel 1980. A livello mainstream, invece, la questione ha trovato poco spazio, probabilmente perché riportata con toni sensazionalistici dal populismo di destra e dimenticata da quello di sinistra. Anche in questo caso, la politica non ha dato un gran contributo alla storiografia.

AAS: Fatto salvo il sacrosanto dovere dell’accoglienza, personalmente credo che questo tipo di immigrazione sia dannosa non solo per l’Europa e per i suoi equilibri sociali ma anche o soprattutto per chi arriva qui senza una prospettiva e finisce nel migliore dei casi o a raccogliere i famosi pomodori o in strada a chiedere l’elemosina (sulla quale credo paghino anche il pizzo al camorrista di turno).

GC: Pensare di chiudere le frontiere o lasciare centinaia di persone a morire in mare è del tutto incivile. L’Italia è, in realtà, perfettamente capace di assorbire un flusso migratorio anche piuttosto consistente, probabilmente nell’ordine delle 50 -100.000 persone ogni anno. Ma questo flusso deve essere regolato in modo più simile a quello degli “skilled migrants” australiani. Certo, l’Australia ha un’altra distanza geografica dai paesi asiatici da cui proviene il grosso dell’immigrazione e ha un numero di abitanti bassissimo, ma con gli opportuni correttivi si può strutturare qualcosa di analogo. Per fare questo, è necessario effettuare controlli più stringenti in loco (in coordinamento con le forze di polizia libiche) e stroncare l’attività dei trafficanti di uomini sulle rotte sahariane. L’operazione Deserto Rosso, annunciata a dicembre scorso, che prevede l’invio 500 soldati italiani con 150 mezzi militari in Niger, è un passo nella direzione giusta. Come ho già detto, in questo tipo di missioni è fondamentale mantenere ottimi rapporti con le forze dell’ordine e le popolazioni locali.

AAS: Che ci sia un pericolo di infiltrazione islamista fra i cosiddetti migranti economici lo hanno detto purtroppo diverse procure della Repubblica e lo stesso Ministero degli interni. Come si può invertire la tendenza, in che modo si può scoraggiare questo flusso, convincere gli africani che qui sono destinati a fare gli schiavi di gente senza scrupoli (tipo le mafie) che hanno messo su un grande business, come hanno purtroppo evidenziato varie inchieste giornalistiche, e che la politica non sembra fare molto per combattere?

GC: Hai fatto bene a sottolineare il pericolo di infiltrazione islamista, ma forse c’è un problema ancora più rilevante, rappresentato da migliaia di persone che intraprendono il viaggio verso l’Europa perché ricercati (per crimini “ordinari” che vanno dalla rapina all’omicidio), renitenti alle leve locali, o semplicemente convinti che in Occidente riusciranno a vivere tranquillamente grazie al welfare. Questi ultimi, in particolare, si ritrovano completamente spaesati perché la loro vita si riduce a stazionare nelle piazze italiane con smartphone e cuffiette nelle orecchie. Un’esperienza alienante, specie perché l’alternativa è finire nelle mani di caporali (un tempo chiamati “negrieri”) che li sfruttano fino ad annientarli nel corpo e nello spirito. Per questo, è necessario lavorare negli stati di origine in due direzioni. Da un lato per mostrare, anche tramite i social, che rischiare la vita per arrivare in Italia gli garantirà un’esistenza migliore solo nell’1 per cento dei casi a dire tanto. Dall’altro cercando di incentivare gli investimenti europei nei paesi del terzo mondo. E con questo non intendo la costruzione di fabbriche e impianti di sfruttamento, dove gli operai locali vengono spremuti come limoni e non c’è alcun beneficio a livello infrastrutturale per il paese di riferimento, ma la creazione di scuole, istituti universitari e borse di studio che permettano a una fetta importante della popolazione di essere in grado, un domani, di migliorare la vita di tutti.