Attenzione: a Pechino stanno già riscrivendo la storia e sono gli stessi responsabili del dramma collettivo che ci è toccato in sorte, con la compiaciuta partecipazione di un esercito di volenterosi apologeti sparsi un po’ ovunque
Il partito cinese vanta molti adepti in Italia: in fondo basta sfoggiare i simboli e i colori giusti perché il popolo del “bella ciao” si converta all’epica dell’uomo forte
“La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza“, recitano gli slogan del Socing incisi sulla facciata del Ministero della Verità, nell’Oceania descritta da Orwell in “1984”. Eterna profezia, incubo ricorrente, romanzo che incarna lo spirito di ogni tempo, perché il doublethink non muore mai e si fa forza trainante nelle società confuse. Come la nostra. Nella capitale del Regno di mezzo il Ministero della Verità lavora giorno e notte. E dalla notte al giorno sui suoi muri compare uno slogan di nuovo conio, scolpito a caratteri cubitali, in modo che tutti possano scorgerli e interpretarli anche a distanza: “Il Partito ha sconfitto la malattia“. Il resto del mondo, sempre più malato, dopo un primo momento di sconcerto e di dubbio, sgrana gli occhi per leggere meglio il messaggio. Poi, in men che non si dica, annuisce convinto e, quasi sollevato nonostante le piaghe ancora infette, comincia ad applaudire il nuovo comandamento e a ossequiare i padroni del pensiero che lo hanno concepito.
La capitale in questione è Pechino, il Partito è il regime comunista cinese, la malattia è il coronavirus (o Covid-19, nome da neolingua anch’esso) che la dittatura di Xi Jinping ha regalato al mondo, in un collage letale da superpotenza sottosviluppata, fatto di ritardi, censure, insabbiamenti e troppe morti evitabili. L’allegoria finisce qui e comincia la cronaca. La storia, invece, la stanno già riscrivendo a piacimento gli stessi responsabili del dramma collettivo che ci è toccato in sorte, con la compiaciuta partecipazione di un esercito di volenterosi apologeti sparsi un po’ ovunque. Proprio come il Covid-19.
Prima di continuare, una premessa necessaria: l’esperienza cinese dimostra che, in certa misura, il contenimento del virus è possibile e funziona. Pur con tutte le cautele del caso sulle cifre ufficiali, i provvedimenti di natura totalitaria messi in atto nel Paese una volta esplosa l’emergenza (isolamento di intere province unito a un sistema di sorveglianza sociale senza precedenti) sembrano aver prodotto finora risultati positivi. Le prossime settimane diranno se si tratta di una tendenza consolidata. Ma l’onda lunga della propaganda e dell’ideologia è già all’opera da tempo per trasformare una crisi sanitaria di dimensioni planetarie originatasi a Wuhan (Hubei, Cina) in una storia di successo, in cui le gravi responsabilità del governo cinese sono destinate ad essere dimenticate per far spazio a una narrativa alternativa, finalizzata a promuovere su scala globale il presunto modello di sviluppo che la Cina pretende di incarnare. Un tentativo che, se scontato dal punto di vista del Partito Comunista, per avere successo ha bisogno della complicità implicita o esplicita proprio di quelle società democratiche che, dopo i cittadini cinesi, sono le vittime principali del suo operato. Il paradosso epocale che stiamo vivendo, non da oggi, si fonda su un meccanismo perverso di inversione dei ruoli e delle responsabilità, una curiosa sindrome cinese per cui non tarderemo molto a identificare la dittatura rossa di Xi Jinping non come la causa del problema ma come la sua soluzione. La Cina, segnatevelo, uscirà dall’epidemia di coronavirus come vincitrice morale, mentre il resto del mondo continuerà a snocciolare le cifre di nuovi contagi.
L’offensiva propagandistica è cominciata con un dispaccio dell’agenzia statale di notizie Xinhua che annunciava la pubblicazione di “A Battle Against Epidemic: China Combatting Covid-19 in 2020″, un libro in cui si esaltano i meriti del presidente Xi Jinping e dei vertici del regime nell’affrontare l’emergenza. Grazie alla guida del suo leader, il Partito avrebbe dato prova di grande lungimiranza ed efficienza, tanto da poter dichiarare la battaglia già vinta. Sono due i principali problemi di immagine che il governo cinese prova in questo modo a ribaltare: da una parte il colpo inferto alla propria reputazione internazionale dalla propagazione dell’epidemia e dai ritardi decisivi delle prime settimane; dall’altra l’ondata di critiche e di insoddisfazione interna che per giorni, prima che la censura mettesse tutto a tacere, era esplosa in rete. La strategia di Pechino ruota attorno ai seguenti punti: enfatizzare la risposta all’emergenza mettendo in luce l’efficacia delle misure adottate: “Il mondo dovrebbe ringraziarci – fa sapere ancora Xinhua in un editoriale – per il nostro grande sacrificio nella lotta contro il virus“; insinuare che la provenienza della malattia potrebbe non essere cinese, contro ogni evidenza scientifica; attribuire a focolai esterni gran parte dei contagi che si stanno ancora producendo sul suo territorio.
In quest’opera di marketing politico bisogna dire che il regime non ha camminato solo. Bruce Aylward, direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, in missione nel Paese alla guida di un gruppo di esperti, ha elogiato senza mezzi termini nella conferenza stampa finale gli sforzi di Pechino nel contenimento dell’infezione, sottolineandone l’approccio aggressivo adottato anche grazie a “metodi di vecchio stampo“, invitando gli altri stati a prendere esempio e rammaricandosi che non tutti fossero pronti a intraprendere gli stessi passi. La rivista scientifica The Lancet, riprendendone le dichiarazioni, ha così definito la natura del regime cinese:
“Il successo della Cina si basa in gran parte su un forte sistema amministrativo che può mobilitare in tempi di minaccia, combinato con la volontà del popolo di obbedire a rigorose procedure di sanità pubblica. Sebbene ad altre nazioni manchi la politica di comando e controllo della Cina, ci sono importanti lezioni che i presidenti e i primi ministri possono imparare dall’esperienza cinese. I segni sono che quelle lezioni non sono state apprese”.
Le parole sono importanti: in entrambi i casi, la constatazione dei risultati sul campo è direttamente associata alla struttura politica del Paese, ovvero, senza mai nominarla apertamente, alla dittatura. Il pensiero sotteso ad ogni ragionamento sulla risposta cinese al coronavirus è che l’illiberalità del suo sistema politico rappresenti un vantaggio pratico nei confronti delle democrazie, incapaci di reagire con la stessa prontezza di fronte alle emergenze. Per giungere a questa conclusione, largamente diffusa ormai anche tra l’opinione pubblica occidentale, basta rimuovere dalla fotografia ogni responsabilità del regime nell’origine e nella propagazione del virus. Che si tratti di febbre suina, che nel semi-segreto ufficiale ha ucciso nell’ultimo anno e mezzo milioni di maiali, o di coronavirus, la nuova narrativa è già pronta, secondo le regole immutabili del doublespeak.
Anche in Italia, in pieno contagio, c’è chi sembra più preoccupato di vendere la versione cinese che di denunciarne le manipolazioni. In un articolo che ricalca nei toni e nei contenuti l’ufficialità del Quotidiano del Popolo, Simone Pieranni sul Manifesto verga un’apologia del Partito Comunista Cinese degna di altri tempi:
“Un allenatore italiano, tra i tanti al di là della muraglia, ha spiegato che il governo cinese pensa davvero alla sua popolazione. La Cina ammalia e incanta, si sa. (…) Il PCC ha gestito al meglio la crisi del coronavirus perché uno Stato paternalista è in grado di fare breccia su una popolazione pronta a mobilitarsi in massa, a eseguire gli ordini se li ritiene giusti, corretti, volti a un’armonia, a una forma di stabilità economica e sociale. (…) Il PCC è l’ago della bilancia sociale in Cina, unica istituzione ad ora in grado di mantenere la stabilità”.
Per Il Manifesto non è Pechino ad aver nascosto la verità ma gli Stati Uniti:
“Il fallimento dei test messi a disposizione dalle autorità sanitarie americane, insieme al sospetto che il governo stia nascondendo i reali numeri del contagio di coronavirus negli Usa, ha portato a una rivalutazione di quanto fatto, invece, dal governo cinese”.
Ma non c’è bisogno di aggirarsi tra le pagine del quotidiano comunista per rendersi conto dei consensi che il modello politico cinese riscuote dalle nostre parti. Per restare al mondo dell’informazione, Corrado Formigli, conduttore di Piazza Pulita, osservava nel corso della sua trasmissione che “in Cina hanno il vantaggio della dittatura, che non è un vantaggio da poco“. Sarebbe difficile ascoltare un’affermazione simile riferita a un regime di segno ideologico opposto. E ancora, Otto e mezzo, Alessandro de Angelis dell’Huffington Post: “La Cina non è una dittatura, è una tecnocrazia illuminata, c’è bisogno di competenze“. Il partito cinese, a quanto pare, vanta molti adepti nel nostro Paese e in fondo basta sfoggiare i simboli e i colori giusti perché il popolo del bella ciao si converta all’epica dell’uomo forte.
Al di là del folklore nazionale c’è un problema di fondo piuttosto serio in tutto questo: sia l’Oms che gran parte dei governi e della stampa internazionale si fanno messaggeri della narrativa cinese senza metterla in discussione, come se provenisse da un governo trasparente e rispettoso della libertà di informazione. L’Australia è stata l’unica a sottolineare “le intense pressioni” esercitate dalla Cina sull’Organizzazione mentre gli Stati Uniti, per bocca di Mike Pompeo, hanno messo in discussione l’operato e le cifre di Pechino. Già a fine gennaio due articoli di altrettante pubblicazioni scientifiche americane segnalavano come nella sola Wuhan il numero reale di contagiati fosse fino a 11 volte superiore a quella dichiarata. Inoltre, è stato denunciato da diversi attivisti all’interno del Paese che non tutte le vittime mortali del virus vengono conteggiate nelle liste ufficiali e il Caixin Global, in un articolo poi eliminato dal suo sito web, ha parlato senza mezzi termini dell’esistenza di “cifre reali al di fuori dalle statistiche”.
Intanto, mentre il coronavirus si diffonde esponenzialmente in un centinaio di Paesi e obbliga l’Italia a chiudere per malattia, la Cina utilizza la crisi sanitaria per accreditare la propria leadership globale a livello di istituzioni. Un think tank governativo sta tastando il polso della comunità internazionale su un’eventuale alternativa cinese alla stessa Oms, evidentemente considerata ancora non sufficientemente malleabile. Vedremo che successo avrà l’iniziativa ma è la dimostrazione di una strategia di lungo termine che, paradossalmente, ha ricevuto dalla vicenda coronavirus un impulso espansivo. Riuscirà il Partito Comunista Cinese a trasformare una tragedia di dimensioni planetarie in un’arma propagandistica per accreditarsi come vincitore morale e punto di riferimento a livello globale? Vista l’inazione di chi dovrebbe opporvisi e la complicità delle sue quinte colonne in seno alle democrazie occidentali, corriamo il rischio che il virus totalitario si espanda come quello sanitario.
Nelle parole di Yan Lianke, scrittore cinese censurato in patria, un auspicio destinato a rimanere inascoltato:
“Tra non molto tempo, com’è facilmente immaginabile, il Paese canterà vittoria con sonori squilli di trombe e roboanti rulli di tamburi. Spero che noi non contribuiremo a comporre futili melodie altisonanti. Limitiamoci a essere persone autentiche dotate di memoria individuale”.