Sembra un paradosso ma non lo è. La generazione Putin – quella dei ventenni che hanno conosciuto la stabilità, la modernità e un relativo benessere – sta voltando le spalle al padre-padrone. Partiamo da un dato che anche i più critici dovrebbero riconoscere: in termini di libertà personale (economica, artistica, di movimento, di autodeterminazione, di espressione) i russi non hanno mai goduto in tutta la loro storia delle possibilità di cui usufruiscono oggi. Che ciò sia avvenuto grazie a Putin o nonostante Putin si può discutere, ma è importante sgombrare il campo da equivoci e strumentalizzazioni: nonostante le ricorrenti involuzioni autoritarie, il continuo richiamo al regime sovietico è fuorviante e non aiuta a capire l’attuale realtà politica e sociale del paese.
È sotto gli occhi di tutti che negli ultimi vent’anni la Russia, soprattutto nei grandi centri urbani, si è lasciata alle spalle il passato. Breve promemoria. Grazie alla congiuntura favorevole rappresentata dall’incremento dei prezzi del petrolio dopo la crisi del 1998, durante il primo mandato di Putin l’economia comincia a crescere a un ritmo elevato. Il mercato continua in balia dell’instabilità, con un’altissima percentuale di sommerso, ma in dieci anni il prodotto interno lordo raddoppia e le turbolenze degli anni novanta rientrano. Progressivamente la povertà si riduce e la speranza di vita cresce. Nel 2013 si produce una prima importante contrazione, insieme a una nuova caduta del greggio, ma l’impianto tiene.
Il presente è caratterizzato da grandi progetti nazionali, investimenti statali e razionalizzazione del sistema bancario. L’obiettivo a medio termine è la crescita e la stabilizzazione dei salari reali, anche se quelli ufficiali rimangono ben al di sotto della media europea. Un rallentamento generale dell’economia unito a una recente riforma pensionistica piuttosto impopolare rendono la fase attuale una delle più problematiche della gestione Putin. Le ambizioni si scontrano con la realtà di un Pil che corrisponde al 2 per cento del totale mondiale, ai livelli di quello spagnolo. Tuttavia la contestazione non nasce da ragioni economiche. Sono le classi medie urbane a farsi sentire nelle piazze di Mosca con rivendicazioni di carattere strettamente politico. Quel che chiedono non è un miglioramento della loro situazione materiale ma un nuovo contratto sociale, un patto rinnovato tra classe dirigente e popolazione che sostituisca quello vigente fino ad oggi, fondato – come accennato in precedenza – sulla separazione tra società e politica a cambio di crescita e stabilità. Sulla capacità di rispondere a queste nuove esigenze di partecipazione e trasparenza si gioca il futuro del sistema Putin.
Ma che tipo di regime politico definisce la Russia attuale? “Il futuro è storia” di Masha Gessen è probabilmente il miglior libro recente che si possa leggere sul tema. L’unico problema è che l’autrice spinge fino al limite una forzatura innecessaria: per catturare l’essenza del putinismo si serve delle categorie del totalitarismo, alla ricerca di una continuità tra passato sovietico e presente. Le pagine in cui confronta le varie definizioni del concetto meritano di per sé uno studio attento. Attraverso la categoria dell’Homo Sovieticus, la cui persistenza dà per scontata nella mentalità collettiva dell’attuale società russa, Gessen arriva a concludere che Putin sta riproducendo alcuni elementi essenziali del precedente sistema: una nomenklatura che domina la burocrazia, una burocrazia che a sua volta controlla la società, un apparato mediatico allineato al potere, una tendenza alla militarizzazione, un’economia non pianificata ma comunque “distributiva” in termini di benefici e prebende. Richiamando le conclusioni del sociologo Lev Gudkov, in Russia sarebbe in corso un processo di imitazione delle istituzioni totalitarie con la più o meno esplicita complicità della popolazione. L’ipotesi è suggestiva ma a mio avviso non convincente, anche perché basarla sulla categoria dell’Homo Sovieticus presenta certi rischi.
Secondo la celebre definizione del padre della sociologia sovietica, Yuri Levada, le sue caratteristiche sono obbedienza, servilismo e sottomissione: l’Homo Sovieticus crede ciecamente nel paternalismo di stato, rinuncia a qualsiasi spazio di indipendenza personale, adattandosi in questo modo alla società costruita attorno e sopra di lui, mentre il regime a sua volta dipende da questo tipo di persona per perpetuarsi. Basta leggere il magnifico affresco collettivo di Svetlana Aleksievic nel suo “Tempo di seconda mano” per rendersi conto che la definizione non era più valida, almeno non completamente, già negli ultimi anni della Perestroika e che si era definitivamente dissolta nell’ansia di libertà e nella paura della libertà dell’epoca eltsiniana. È vero che il sentimento di perdita alimentava in alcune fasce della popolazione un attaccamento morboso al passato ma non si trattava tanto di un’eredità ideologica quanto psicologica. E in questo varco lasciato dalla fine di un mondo si inserisce l’avvento di Putin (nominato primo ministro, non si dimentichi, dallo stesso Eltsin). Anche se poteva sembrare inizialmente una figura di passaggio, un semplice anello nella catena della transizione, Putin ha finito per incarnare in una sola persona quell’esigenza di sicurezza e ordine prodotta dal vuoto e dalla confusione del primo decennio post-comunista. Funzionario di stile sovietico, grigio ma pragmatico, ha concentrato nella sua persona il sentimento nostalgico di chi si sentiva orfano del paese in cui era cresciuto e dell’unico sistema che aveva conosciuto, per tragico e oppressivo che fosse. Su questa base ha costruito la sua storia politica.
Si sono appiccicate diverse etichette al sistema Putin: democrazia illiberale (ossimoro politologico), regime ibrido (democratico e totalitario allo stesso tempo), stato mafioso post-comunista (buono per la sociologia, meno per la politica), autoritarismo elettorale, solo per citarne alcune. Tutte sono applicabili parzialmente ma nessuna esaurisce il fenomeno. Io definirei quella russa una transizione incompiuta con costanti ricadute autoritarie. Massimo Boffa, interpellato da Giuliano Ferrara sul libro di Masha Gessen, si soffermava sull’importanza del fattore tempo. A un paese immenso che non ha mai conosciuto la democrazia, uscito con le ossa rotte da settant’anni di socialismo reale, forse non si può chiedere di più. Questo non esime dall’analisi e dalla critica.
Il numero di prigionieri politici supera le cifre dell’ultimo Gorbachev. La stampa conserva certi margini di indipendenza ma i limiti sono marcati spesso con il sangue. Il potere giudiziario risponde a quello politico. La polizia protegge lo stato più che il cittadino. Le garanzie legali a protezioni delle persone e del business appaiono chiaramente insufficienti. L’opposizione politica è disarticolata. Le proteste occasionali sono represse o gestite in maniera funzionale alla conservazione del sistema. Dal Cremlino intanto arrivano segnali apparentemente contraddittori diretti sia all’interno che all’esterno: creazione dal nulla di organizzazioni non governative e simultaneamente di gruppi incaricati di renderle inoperative, nascita di partiti apparentemente oppositori in realtà controllati dal governo, appoggi ai nazionalisti di destra europei, ammiccamenti all’estrema sinistra grazie alla retorica anti-americana, prossimità ideologica con gli ultra-conservatori promuovendo la persecuzione dell’omosessualità. Un discorso globale che comprende di tutto, diretto a costruire un consenso trasversale. Putin, tutt’altro che un populista, si è dimostrato abile nell’utilizzare i movimenti populisti all’estero e a influenzare anche attraverso la rete settori di opinione pubblica occidentale. Twitter ne è un esempio piuttosto significativo: sono sempre più numerosi in Europa gli utenti che appoggiano le politiche del Cremlino, diffondendone acriticamente i punti di vista e la propaganda. È un fenomeno degno di nota, basato il più delle volte non su analisi fattuali ma su un pregiudizio ideologico contro le democrazie liberali. Elementi comuni di questo esercito di volontari per Putin sono l’avversione per l’Ucraina, caricaturizzata secondo una retorica di vecchia data come una ridotta fascista, e spesso una nostalgia esplicita per l’Unione Sovietica. Emblematico il caso dell’anniversario del patto Molotov-Ribbentrop dove la versione revisionista diffusa dal Ministero degli esteri russo è stata riprodotta su scala internazionale con un livello di coordinazione sorprendente.
Scriveva il maestro François Furet a proposito della fine dell’illusione comunista:
“(…) la Rivoluzione d’Ottobre ha chiuso la sua traiettoria storica senza essere stata vinta sul campo di battaglia, ma ha liquidato essa stessa tutto ciò che è stato fatto in suo nome. Nel momento in cui si è disgregato, l’Impero sovietico ha offerto lo spettacolo eccezionale di essere stato una superpotenza senza avere incarnato una civiltà. La sua rapida dissoluzione non ha lasciato nulla: né principi, né codici, né istituzioni, neanche una storia. Come i tedeschi, i russi sono il secondo grande popolo europeo incapace di dare un senso al loro XX secolo”.
Anche la Russia attuale sembra soffrire di questa crisi di identità, della mancanza di un progetto condiviso che non sia rappresentato solo dalla contrapposizione con l’occidente e non dipenda esclusivamente da una sensazione costante di isolamento o esclusione. Putin, il redentore dell’orgoglio russo ferito, l’uomo forte che ufficialmente ha riportato il paese “al centro dello scenario internazionale”, non è mai riuscito in realtà a sottrarlo a una logica vittimista, anzi l’ha alimentata: tattico di prim’ordine, è stato incapace di offrire ai russi una strategia coerente di auto-affermazione fuori dai propri confini e soprattutto di creare una nuova narrativa, un romanzo russo alternativo a quello dell’epoca totalitaria e alle sue ceneri. Quel che manca è un’idea di Russia per il XXI secolo, al di là della continuità nel potere e dell’accentramento delle decisioni fondamentali. Si nota a tutti i livelli, dalla scelta della classe dirigente alla gestione delle proteste, in cui l’approccio politico è stato totalmente assente.
Ma se dovessi indicare un fattore decisivo tra i molti che stanno frenando l’evoluzione democratica della Russia, mi soffermerei sul rapporto con la propria storia recente. Direi che la manipolazione e la rimozione del passato in funzione degli interessi politici del presente definisce con precisione il regime di Putin. Dal Gulag alla Seconda Guerra Mondiale, non c’è ambito storiografico che il governo non si incarichi di adattare alle circostanze e alle convenienze attuali. Questa continuità prende le mosse dalla dissoluzione dell’Impero: al contrario di quanto accaduto nei paesi satelliti dell’Est europeo, le istituzioni sovietiche non furono smantellate ma si trasformarono automaticamente in istituzioni russe. Dopo un periodo di apertura iniziale, gradualmente queste ultime cominciarono a limitare l’accesso agli archivi complicando le ricerche degli studiosi. Si cambiò l’uniforme del custode, si richiuse la porta e si tirò la chiave. Il risultato è sotto gli occhi di chiunque lo voglia vedere: una memoria fossilizzata, agonizzante, asservita. Al contrario di quanto suggerito da Massimo Boffa nell’articolo già citato, in riferimento alle numerose vestigia del passato comunista ancora presenti in Russia (simboli e monumenti), a me non sembra affatto che questa sia la dimostrazione di “un rapporto pacificato con la propria storia”.
Questo sarebbe vero se i russi ci fossero arrivati al termine di un’esercizio collettivo di memoria, analisi, giudizio e riconciliazione, che invece non c’è stato. Il passato sopravvive nelle sue forme più ambigue proprio perché a nessuno tra coloro che avrebbero potuto promuovere questo processo doloroso ma necessario (politici, accademici, storici, educatori, funzionari) è venuto in mente di metterlo davvero in discussione. Alexander Etkind, citato ancora da Gessen, parla a questo proposito della natura suicida del terrore sovietico e delle sue ripercussioni sulla memoria storica:
“Le vittime e i carnefici facevano parte delle stesse famiglie, gli stessi gruppi etnici (…) Se l’Olocausto nazista sterminò l’Altro, il terrore sovietico fu suicida. Il carattere autoinflitto del terrore sovietico ha complicato la circolazione delle tre energie che strutturano il mondo dopo una catastrofe: lo sforzo cognitivo di apprendimento (…), la necessità emozionale di piangere le vittime e il desiderio attivo di trovare giustizia e vendicarsi dei carnefici (…). La natura suicida delle atrocità sovietiche rese quasi impossibile la vendetta e molto difficile l’apprendimento”.
Anche quella del posizionamento internazionale è una questione chiave che Putin sembra lontano dal risolvere. Eredità avvelenata della perduta centralità dell’Unione Sovietica nella sua contrapposizione con la democrazia capitalista, le contraddizioni nel rapporto con le potenze storiche ed emergenti sono state una costante della lunga transizione russa. Si può datare dall’inizio del secondo mandato presidenziale il momento in cui Putin svolta da una possibile prospettiva di integrazione con l’occidente a una visione russocentrica. Complici anche le erratiche politiche di Europa e Stati Uniti, la Russia capisce che non esiste una casa comune da Lisbona a Vladivostok. E reagisce male. Comincia a pensare a se stessa come a un paese senza amici, vive una crescente sensazione di isolamento. Senza una ideologia di stato, prevale il vittimismo, e con esso un certo desiderio di rivalsa. Comincia una fase assertiva, spesso aggressiva, che la porta fino alle avventure belliche in Georgia e Ucraina e agli interventi in Siria e America Latina.
Secondo Dmitri Trenin, ex colonnello dell’intelligence e attuale direttore del Carnegie Moscow Center, i due più grandi errori di Putin sono stati l’ossessione per l’espansione ad Est della Nato, assolutamente aliena alle logiche militari attuali, e la convinzione che l’Ucraina potesse essere inglobata nel progetto eurasiatico di Mosca. Il primo ci riporta a quella che il sociologo Yuri Levada identificava come una delle caratteristiche della società sovietica, ovvero l’auto-isolamento, a livello di stato (creazione di zone cuscinetto) e a livello individuale (come protezione dal potere). Il secondo deriva dalla sottovalutazione dell’importanza esistenziale attribuita dalle élites ucraine alla loro indipendenza e al loro eurocentrismo. L’Ucraina è sempre stata il bersaglio delle frustrazioni prima sovietiche, poi russe. Considerata fin dai tempi dei bolscevichi la culla dei kulaki e del separatismo nazionalista e sottoposta alle più grandi sofferenze e intimidazioni, continua oggi ad essere castigata per la sua insubordinazione. Oltretutto l’esempio di una democrazia, per quanto altalenante, in cui si succedono con regolarità elezioni e presidenti è certamente una spina nel fianco per una Russia condannata ad un immobilismo politico di stampo autocratico.
In un’interessante intervista concessa a un giornalista ucraino, il responsabile della emittente radiofonica Echo di Mosca, Alexei Venediktov, afferma che Putin in realtà non aveva intenzione di riprendersi la Crimea: fu l’ambizione di lasciare un segno tangibile nella storia russa a fargli cambiare idea. La Crimea mobilitava la nazione, era un fattore ideologico essenziale per la sua legittimazione, un regalo per la posterità. In quest’ottica le sanzioni diplomatiche ed economiche rivestono un’importanza relativa: nella visione di Putin Bielorussia, Russia e Ucraina sono destinate alla riunificazione e l’Ucraina rappresenta un semplice territorio, nemmeno uno stato. La questione ucraina è un simbolo, una guerra per procura con Washington. Un’ossessione, come scrive Trenin.
Ma la Russia attuale non è (ancora) una potenza ideologica. Le sue alleanze in chiave anti-occidentale mantengono un carattere ambiguo, più simbolico che effettivo. È vero che la battaglia ideale contro le democrazie liberali si sta intensificando e questo potrebbe essere interpretato come il preludio di un’ostilità concreta. Eppure la formula secondo cui il Cremlino non è né un nemico né un alleato, ribadita recentemente da Macron in maniera piuttosto strumentale, mantiene una certa validità, anche se forse è tardi per recuperare il tempo perduto e con esso un grande paese che naturalmente guarda all’Europa.
Sul fronte orientale è la Russia ad avere bisogno della Cina e non il contrario: Putin è bloccato in una competizione geopolitica con l’occidente e cerca gli appoggi necessari. È una relazione di convenienza, di sospetto più che di rispetto, una convivenza forzata ma non un’alleanza, contraria alla natura e alle aspirazioni dei russi. Viene da chiedersi cosa sarebbe della Russia con un leader disposto a trovare un’intesa con Europa e Stati Uniti, a rispettare lo spazio vitale dei suoi vicini e a evitare una politica di confronto permanente. C’è una vera alternativa a Putin? Per il momento no, ma quello che è diventato un mantra per giustificare il consolidamento del potere in realtà è anche il risultato di questo arroccamento. Un circolo vizioso che qualcuno prima o poi dovrà disfare senza consegnare il paese ad estremisti di opposta estrazione. Per la risposta comunque bisognerà aspettare almeno fino al 2024, salvo sorprese.