Italia, Inghilterra, Stati Uniti: chi per un verso chi per un altro sono
additate come società non ospitali, isolazioniste, anti immigrati. La realtà è esattamente l’opposto: i nostri sistemi valoriali e le nostre dimensioni culturali sono la garanzia che l’integrazione dei migranti è a prova di discriminazione. Ammettiamolo: la nostra è una cultura individualista e competitiva. Per fortuna. Questo è il nostro soft power, ciò che ci rende attrattivi ed inclusivi. È proprio l’individualismo che incoraggia la mobilità e l’iniziativa personale. Un alto tasso d’individualismo ha permesso alle nazioni come l’America e la Gran Bretagna di assorbire e integrare migranti in un modo più efficace e pragmatico rispetto a società con un forte imprinting collettivista, gerarchico, tradizionalista e relationship-based come quelle africane, arabe ed asiatiche.
L’etica collettivista mette al centro del gruppo il welfare state e gli sforzi cooperativi. L’individuo è riconosciuto sulla base dell’affiliazione a un gruppo etnico, tribale, religioso e ad un network di contatti; i bisogni degli individui sono asserviti agli interessi collettivi del gruppo di riferimento. La faccia deve essere preservata ad ogni costo precludendo la possibilità di fallire provandoci. Le aspirazioni personali devono fare i conti con le aspettative e le dinamiche interne dei gruppi di riferimento. L’affiliazione al gruppo è conferita dalla nascita e non è soggetta a preferenze personali. L’educazione scolastica non incoraggia l’autonomia personale ma predica rispetto per la tradizione e l’autorità. Le imprese e le condotte che potrebbero alterare le dinamiche di potere e di gruppo devono essere fermate sul nascere. Il confronto schietto e diretto è un anatema ed i conflitti non sono risolti attraverso un processo che si basa sulla legge e sulle regole scritte ma attraverso meccanismi di conciliazione comunitarie basate sulla conservazione dell’armonia all’interno di un gruppo che nulla hanno a che fare con il principio della legge uguale per tutti. Anzi, vige la regola non scritta: agli amici i favori, ai nemici la legge.
Le culture individualiste come quelle anglosassoni e in larga misura quelle europee valorizzano la libertà e il progresso individuale; incentivano la self-expression e lo spirito imprenditoriale. L’affiliazione a un gruppo o un’azienda non è dettata dai legami di sangue e non è coercitiva. I membri di culture individualiste appartengono contemporaneamente a più gruppi ed associazioni diverse. La mobilità è giudicata molto positivamente e chi fallisce non perde la faccia ma acquisisce punti per averci provato. Lo status è acquisito, non ereditato; l’autorità è rispettata ma anche confrontata; i diritti e i doveri sono definiti dalla legge e non dalle tradizioni, mentre i conflitti sono risolti nelle sedi appropriate e non dai membri e dalle opinioni del gruppo.
I deterrenti allo sviluppo di una nazione non sono solo economici e politici. La dimensione culturale può fare la fortuna di un paese o tenerlo in uno stato di stallo permanente. Possiamo anche investire una quantità enorme di risorse economiche nei paesi in via di sviluppo in nome dello slogan o del principio “aiutiamoli a casa loro”, ma chi è escluso dai network o chi non è accettato per affiliazioni etniche, religiose, familiari o status di gerarchia, cercherà sempre fortuna dall’altra parte del Mediterraneo e dell’Atlantico.