Una pioggia di quasi mille missili si è abbattuta in poco più di 24 ore su Israele dalla Striscia di Gaza, controllata da 15 anni da una organizzazione terroristica: Hamas. Prese di mira città importanti e popolate, tra cui Gerusalemme e Tel Aviv. La maggior parte dei missili è stata intercettata dal sistema di difesa Iron Dome, che numerosi video condivisi sui social mostrano in azione sui cieli israeliani. Solo grazie a questo sistema Israele ha evitato di contare un più alto numero di vittime, ma dal punto di vista militare il numero impressionante di lanci ha una logica precisa: mandare in tilt le difese israeliane e penetrare lo scudo. Nei pochi casi in cui ciò è accaduto, i missili di Hamas (e della Jihad Islamica Palestinese) – i meno rudimentali di fabbricazione e provenienza iraniana – hanno mostrato tutta la loro potenza distruttiva, smentendo chi si ostina a considerarli poco più che giocattoli. Hanno distrutto case, scuole, autobus, provocato morti e feriti.
L’aggressione di Hamas si qualifica come doppiamente criminale. Da un lato, perché i suoi missili non sono diretti su obiettivi militari, ma prendono di mira indiscriminatamente i centri abitati. In secondo luogo – forse persino più grave – perché Hamas ha disseminato postazioni di lancio e depositi di missili nei centri abitati di Gaza. E ricordiamo che secondo la Convenzione di Ginevra è un crimine di guerra non solo colpire deliberatamente la popolazione e obiettivi civili senza alcun valore militare o strategico, ma anche lanciare attacchi da aree residenziali e trasformare in depositi di armamenti ospedali, scuole e luoghi di culto, rendendoli così obiettivi militari.
La differenza tra uno Stato democratico come Israele e un’organizzazione terroristica senza scrupoli come Hamas, purtroppo spesso ignorata nelle cronache e nelle analisi, è propria questa: Israele difende i suoi cittadini e fa di tutto per evitare vittime civili nei suoi attacchi, mentre Hamas fa di tutto per uccidere civili israeliani e usa i palestinesi, ancora meglio se bambini, come scudi umani, per lucrare un successo propagandistico dirottando su Israele l’indignazione internazionale per le vittime civili. Tra parentesi, Jack Dorsey ha cacciato Donald Trump da Twitter, ma il leader di Hamas, Ismail Haniyyeh, è libero di celebrare il bombardamento di Tel Aviv e chiamare alla jihad nelle strade sulla sua piattaforma…
Non solo il lancio di centinaia di missili. Parte della strategia di Hamas sembrano essere le rivolte che nella serata di ieri sono divampate – stile Black Lives Matter e Antifa negli Usa – in diverse città israeliane (Lod, Rahat, Qalansawe, ma anche Haifa e Gerusalemme). Militanti palestinesi organizzati hanno attaccato e dato alle fiamme, usando anche molotov e armi automatiche, centrali di polizia, sinagoghe e quartieri ebraici.
Purtroppo, come sempre, nelle dichiarazioni arrivate dalle capitali occidentali che invitano “entrambe le parti” alla de-escalation, o nei titoli dei servizi dei media mainstream, riecheggia una odiosa equivalenza morale, si stenta a riconoscere una distinzione tra aggressore e aggredito che si difende, non viene correttamente ricostruita la catena causale degli eventi.
La pianificazione della duplice offensiva – dall’esterno, missilistica, e dall’interno, jihadista – da parte di Hamas appare evidente.
Quando il presidente dell’Autorità palestinese Abbas ha annunciato la decisione di rinviare le elezioni (le prime in 15 anni) a data da destinarsi, Hamas ha chiamato i palestinesi, in particolare di Gerusalemme Est, alla rivolta contro Israele, allo scopo di mostrare con i fatti la sua leadership e la debolezza di Abbas, approfittando di alcune circostanze favorevoli: le proteste in corso per lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e la esplosiva concomitanza di tre eventi estremamente conflittuali il 9 maggio scorso. Il Jerusalem Day, festività nazionale in cui Israele celebra la riunificazione di Gerusalemme nel 1967; la ricorrenza della Rivelazione del Corano per i musulmani al termine del Ramadan; e, come se non bastasse, il “Jerusalem Day” iraniano, che rinnova l’appello alla distruzione di Israele e alla “liberazione” di Gerusalemme.
Non a caso, Hamas intendeva candidarsi alle elezioni poi rinviate con una lista denominata “Gerusalemme è il nostro destino”. Sperava di fare di Gerusalemme il tema principale della sua campagna elettorale, promettendo di proseguire la lotta contro Israele “fino alla liberazione” della città santa. Una volta rinviato il voto, non ha rinunciato al suo proposito e ha fatto di tutto per presentarsi come paladina della Gerusalemme palestinese e della Moschea di Al-Aqsa, unico gruppo a mantenere la sua promessa di combattere per Gerusalemme mentre l’Autorità palestinese guidata da Fatah si dimostrava incapace di farlo.
Hamas si è così ripresa il centro della scena, accendendo la miccia delle ostilità e dettando i tempi dell’escalation.
Gli scontri nei pressi della Moschea di Al-Aqsa tra forze dell’ordine israeliane e palestinesi, in gran parte militanti di Hamas, come si può constatare dalle bandiere visibili nei filmati, sono stati solo un pretesto abilmente preconfezionato. I “prevalentemente pacifici” fedeli musulmani erano arrivati, oltre che con le bandiere di Hamas, con pietre, spranghe e molotov, hanno trasformato la Spianata in un campo di battaglia e la moschea in una fortezza.
Ma la lettura degli eventi in corso sarebbe incompleta senza considerare il contesto regionale. Principale sponsor e fornitore di armi ad Hamas e alla Jihad Islamica Palestinese è l’Iran, che l’amministrazione Biden ha rilegittimato come interlocutore aprendo senza pre-condizioni al rientro degli Usa nell’accordo sul programma nucleare. Il presidente turco Erdogan che soffia sul fuoco e si erge a paladino della causa palestinese per intestarsi la leadership del mondo musulmano sunnita e riaffermare la centralità di Ankara guidando gli sforzi diplomatici per far tacere le armi.
È impensabile che dietro un attacco di così vasta scala di Hamas (e della Jihad Islamica Palestinese) non ci sia il via libera di Teheran. L’Iran usa i missili da Gaza per colpire Israele, come usa i missili dallo Yemen per colpire l’Arabia Saudita. Quanto sta accadendo nella regione è fin troppo evidente: l’amministrazione Biden nei suoi primi giorni ha mandato segnali di allontanamento dagli alleati – Israele e Arabia Saudita – e l’Iran ne ha approfittato. Chiaro che sotto i missili di Hamas e i raid israeliani su Gaza rischia di finire affossato anche il promettente processo degli Accordi di Abramo, favorito dall’amministrazione Trump e da Riad e ovviamente sgradito alla leadership di Teheran, perché dimostra che la pace tra Israele e paesi arabi è possibile anche se la questione palestinese resta aperta, strumentalizzata dagli iraniani.
Come ha osservato Nikki Haley, rappresentante Usa all’Onu nei primi due anni della presidenza Trump, la mancanza di sostegno a Israele e l’apertura a Teheran del presidente Biden hanno incoraggiato i gruppi terroristici che vogliono distruggere lo Stato ebraico. I leader di Hamas – e iraniani dietro di essi – stanno “testando” Biden perché ritengono – non a torto – che il presidente Usa non sosterrà Israele con la determinazione e le azioni necessarie.
Mentre al Congresso alcuni deputati Democratici invitano il presidente a sostenere apertamente i palestinesi, con le città israeliane sotto la pioggia dei missili di Hamas la portavoce della Casa Bianca non ha saputo far di meglio che farfugliare che gli Usa sostengono la soluzione dei “due stati”. Peggio, ha ammonito che le azioni di Israele a Gerusalemme Est lavorano “contro” la soluzione della crisi e condannato “l’estremismo da entrambe le parti”.
Ma ancora peggio ha saputo fare il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, uno dei fautori dell’apertura a Teheran: domenica sera ha ritenuto opportuno telefonare alla sua controparte israeliana, Meir Ben-Shabbat, sposando la narrazione di Hamas che attribuisce a Israele la responsabilità delle proteste dei palestinesi a Gerusalemme, in realtà premeditate e fomentate proprio da Hamas. Sullivan ha ribadito al suo interlocutore le “serie preoccupazioni” degli Stati Uniti per gli sfratti nel quartiere di Sheikh Jarrah, non accorgendosi che Hamas stava strumentalizzando la disputa legale – che in Israele, come in ogni stato di diritto, si risolve nei tribunali – per giustificare la sua nuova offensiva terroristica.
“In qualità di stato sovrano, Israele sta gestendo gli eventi in modo responsabile e misurato nonostante le provocazioni”, gli aveva risposto Ben-Shabbat, avvertendo che la pressione internazionale esercitata solo su Israele sarebbe apparsa come un “premio” e un incoraggiamento agli occhi dei rivoltosi e dei loro sponsor. Meno di 24 ore dopo sarebbe arrivato l’ultimatum di Hamas, in cui si intimava a Israele di ritirare le sue forze di sicurezza dal Monte del Tempio e da Sheikh Jarrah, in pratica di rinunciare alla sua sovranità sulla capitale. Pochi minuti dopo la scadenza dell’ultimatum, i primi missili…