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ITALYGATE/14 – Si riaccendono i riflettori su Roma: l’ambasciatore Phillips tra i funzionari di Obama che sapevano di Flynn

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L’ultima breaking news è arrivata ieri sera dalla giornalista di Cbs News Catherine Herridge, che ha ottenuto il documento che il direttore pro tempore dell’Intelligence Nazionale Richard Grenell ha inviato al Congresso contenente la lista degli alti funzionari dell’amministrazione Obama che, tra l’8 novembre 2016 (il giorno delle elezioni) e il 31 gennaio 2017, chiesero e ottennero l’“unmasking” del generale Mike Flynn, cioè di ricevere i rapporti di intelligence e le trascrizioni delle intercettazioni della NSA con l’identità svelata del cittadino americano che interagiva con l’agente straniero sotto sorveglianza, in questo caso l’ambasciatore russo a Washington Sergey Kislyak. Un’informazione altamente classificata, al punto che è nascosta alla stessa comunità di intelligence, tranne ai pochi che hanno davvero necessità di accedervi. La lista è di fondamentale importanza perché è molto probabilmente tra questi nomi colui che, illegalmente, ha rivelato al Washington Post il contenuto delle telefonate tra il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump e l’ambasciatore Kislyak, e sarebbe già da lunedì sotto la lente del procuratore Durham.

“Ciascuna persona – si legge nel documento – era un destinatario autorizzato del rapporto originale”, cioè con il nome di Flynn in chiaro, ma “non possiamo confermare che tutti abbiano visto le informazioni unmasked“.

I funzionari dell’amministrazione Obama che chiesero l’unmasking di Flynn durante quel periodo cruciale sono 16, alcuni più volte. Tra questi, è di routine che compaiano figure dell’intelligence (come il DNI Clapper, il direttore della CIA Brennan e il direttore dell’FBI Comey), dei dipartimenti della difesa o del tesoro.

Molto meno normale che nella lista compaiano nomi “politici”, che non avevano alcun motivo di accedere ai rapporti unmasked, se non quello di spiare gli avversari politici: l’ambasciatore all’Onu Samantha Power (ben sette richieste), che tra l’altro aveva risposto sotto giuramento di non ricordare sue richieste su Flynn, il vicepresidente Biden e il capo dello staff del presidente Obama, Denis McDonough, la cui richiesta di unmasking è guarda caso dello stesso giorno – il 5 gennaio – in cui il vice procuratore generale Sally Yates ricordò di aver appreso delle telefonate Flynn-Kislyak dal presidente in persona. Quel meeting del 5 gennaio nello Studio Ovale sempre più evento chiave.

Se si possono in qualche modo spiegare le richieste di unmasking di Flynn da parte degli ambasciatori Usa in Russia e Turchia, ci sono un paio di nomi che proprio stonano in questa lista, come nel gioco “trova l’intruso”. Anomalie nell’anomalia, a chiedere l’unmasking di Flynn, e tra i primi, già il 6 dicembre 2016, furono l’ambasciatore Usa in Italia e San Marino, John R. Phillips, e la diplomatica Kelly C. Degnan, all’epoca vice capo missione in Italia e a San Marino. Cosa c’entrava l’Italia con Flynn? Cosa c’entrava l’ambasciatore Phillips? (la cui moglie, Linda Douglass, era stata giornalista di lungo corso di Abc e Cbs, ed era capo globale delle comunicazioni di Bloomberg Media).

La presenza di questi due nomi nella lista di chi riceveva rapporti di intelligence con l’identità di Flynn svelata è apparentemente immotivata, a meno di non ritenere l’ambasciata Usa di Via Veneto, anche per il ruolo giocato degli agenti FBI Gaeta e Ramsey, una delle centrali operative del Russiagate. Il che non può che riaccendere i riflettori su Roma e su tutte quelle istituzioni italiane che, ciascuna nel proprio ambito, coltivano stretti rapporti con l’ambasciata: Palazzo Chigi (all’epoca Renzi e Gentiloni), i servizi di intelligence, ma anche istituzioni giudiziarie (la Procura di Roma) e culturali (il Centro Studi Americani).

Il 13 settembre 2016 arrivava dall’ambasciatore Phillips “un endorsement in piena regola”, come scriveva Formiche.net all’epoca, alla riforma della Costituzione Renzi-Boschi: “Il referendum offre l’opportunità di garantire la stabilità di governo”, spiegava l’ambasciatore ospite del Centro Studi Americani. “Il segnale netto di quale sia l’orientamento dell’amministrazione Usa”, il commento di Formiche.

Addirittura, per l’ambasciatore americano, una vittoria del “no” avrebbe segnato “un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia” e avrebbe colpito anche l’economia americana.

Qualcuno la chiamerebbe “ingerenza” nel processo democratico di un Paese alleato, ma forse in quei giorni era in corso un’ingerenza anche in direzione opposta…

Lusinghiero il giudizio di Phillips sull’operato del premier Matteo Renzi: “Ha fatto un ottimo lavoro finora. È considerato con grande stima da Obama che ne apprezza la leadership”. Una stima dimostrata anche nell’ultima cena di Stato alla Casa Bianca, che il presidente Usa ha voluto organizzare proprio con il presidente del Consiglio italiano il 18 ottobre, a 20 giorni dalle presidenziali dell’8 novembre.

Ma ricordiamo i dossier che in quel periodo, dalla primavera/estate del 2016 al maggio 2017 passarono per l’ambasciata Usa a Roma:
1) il dossier Steele inizia (il 5 luglio 2016) e finisce (il 3 ottobre 2016) a Roma: era l’agente dell’FBI Michael Gaeta a gestire l’ex agente britannico come informatore, ad invitarlo nella capitale il 5 luglio e ad organizzare l’incontro segreto del 3 ottobre con tre altri agenti del team che indagava sulla Campagna Trump, arrivati direttamente da Washington;
2) i funzionari FBI Kieran Ramsey e Cristina Posa gestirono dall’ambasciata il caso dei fratelli Occhionero interagendo evidentemente con la nostra Polizia Postale e la Procura di Roma (tutti i protagonisti frequentatori di Link Campus University, dove avvenne il primo incontro Mifsud-Papadopoulos);
3) e, infine, l’accordo del capo della CIA John Brennan con l’Italia per la consegna dell’ex agente Sabrina De Sousa (qui parla del suo caso, l’unica ad essere stata imprigionata dei circa trenta agenti coinvolti nel caso del sequestro Abu Omar). Difficile credere che quell’accordo non sia passato anche per l’ambasciata di Via Veneto e per Piazzale Clodio. Brennan si recò di persona a Lisbona, nel novembre del 2016, subito dopo la vittoria di Trump, per assicurarsi che le autorità portoghesi avrebbero estradato De Sousa, come poi avvenuto.

E da domani bisognerà scrivere un quarto punto, sul perché l’ambasciatore Phillips e la vice capo missione avevano richiesto fin dal 6 dicembre 2016 l’unmasking di Flynn, cioè di vedere in chiaro l’identità del generale nei rapporti NSA.

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