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Kavanaugh ce l’ha fatta, ma a che prezzo? E’ finita bene, ma è finita malissimo

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E’ finita bene (nel senso che Brett Kavanaugh ha ottenuto la conferma parlamentare della sua nomina a membro della Corte Suprema americana), ma in realtà è finita malissimo.

Per lunghe settimane, non abbiamo assistito solo a un classico tentativo di character assassination per scopi di partigianeria politica, ma a una specie di wrestling nel fango, scatenato dai Democratici, con conseguenze ormai fuori controllo.

La storia è quella di Brett Kavanaugh, giurista conservatore largamente stimato e rispettato anche dai suoi avversari, fino a poche settimane fa. Allievo di un gigante come Antonin Scalia, e sostenitore della scuola giuridica detta “textualism”: in altre parole, per lui i giudici costituzionali dovrebbero attenersi rigorosamente al testo della Costituzione, non “inventarsela” e “adattarsela” ogni volta in base alle mode o alle tendenze di cui si autodichiarano “interpreti”. Donald Trump lo ha scelto come membro della Corte Suprema, e potrebbe essere l’uomo che fa cambiare la maggioranza interna alla Supreme Court. Peggio ancora (dal punto di vista dei Democratici): siamo a poche settimane da un voto drammatico per le elezioni parlamentari di mid-term, in cui i Repubblicani appaiono in difficoltà. E allora ecco l’occasione per trasformare il voto parlamentare sulla conferma della nomina di Kavanaugh in un rodeo selvaggio, in una moltiplicazione ossessiva della campagna anti-Trump.

E come colpire Kavanaugh? Con l’arma impropria del #metoo, descrivendolo come un perverso predatore sessuale. Con una tempistica a dir poco sospetta, e la quasi certezza che i Democratici abbiano orchestrato (e forse sostenuto anche concretamente) le testimonianze, sono infatti venute fuori una prima, una seconda, una terza, e perfino una quarta donna che hanno accusato Kavanaugh di approcci sessuali impropri 36 anni fa, in occasione di feste tra liceali, addirittura in un caso con uso preventivo di droghe per stordire le potenziali vittime. Lui ha replicato facendo tutto il possibile: esibendo i suoi diari di allora (e dimostrando che le date indicate dalle accusatrici non combaciano), apparendo in tv accanto a sua moglie, facendosi umiliare dalla Commissione Giustizia del Senato, diventata una via di mezzo tra un tribunale dell’Inquisizione e un reality-show pruriginoso e scandalistico.

L’Italia ha conosciuto la campagna mediatica e giudiziaria sul “bunga bunga” anti Berlusconi, ma qui siamo a una specie di rilancio parossistico di quella violenza, che investe anche figure laterali, “colpevoli” solo di essere state scelte da Trump. La domanda da porsi, banalmente, è: chi mai accetterà – in futuro – una candidatura a un ufficio pubblico, se il prezzo sarà una specie di lapidazione personale e familiare? Anche un uomo dalla pelle dura come Karl Rove, spin doctor repubblicano in altre stagioni alla Casa Bianca, ha parlato di una deriva da Terzo Mondo, se i democratici insisteranno con questa campagna.

La realtà è che un intreccio perverso di coincidenze (la campagna #metoo, l’odio anti-Trump e le imminenti elezioni di mid-term) ha creato un frullatore in cui si sono mescolate tutte le divisioni più tossiche immaginabili: ostilità e partigianeria politica, eccessi della dottrina gender, furore ideologico anti-conservatori, più l’ulteriore combustibile rappresentato dai social network, dove sembra ormai impossibile perfino ipotizzare che il “nemico” sia in buona fede.

Morale: nonostante il finale (apparentemente) rassicurante, questa vicenda è destinata a essere ricordata per molti anni, a lasciare ferite difficilmente curabili, e innescare una ulteriore spirale di vendette e dossieraggi. In Italia, naturalmente, con poche eccezioni (penso alle analisi di Maria Giovanna Maglie), le tesi giustizialiste e l’impiccagione mediatica del maschio conservatore trumpiano sono state adottate quasi all’unanimità, fino a un titolo di Repubblica della scorsa settimana che è arrivata a chiamare “festini” quelle che erano feste tra liceali di quattro decenni fa.

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