James Baker III e Henry Kissinger sono stati dei giganti della diplomazia americana che hanno vissuto in prima persona – e spesso deciso – gli eventi più significativi del Novecento. Per molti anni la letteratura sul loro conto ne ha magnificato risultati e influenza nel Partito Repubblicano e non solo. Ora però due nuovi volumi fanno luce anche sulle loro connessioni e sulle loro ambizioni, fornendoci un ritratto non solo professionale ma anche umano della loro vita. “The man who ran Washington: the life and times of James Baker III”, di Peter Baker e Susan Glaser, racconta la vita e la carriera dell’uomo di potere per definizione dell’establishment repubblicano così come lo hanno conosciuto i due corrispondenti alla Casa Bianca del New York Times. Baker è stato l’unico mandarino americano a potersi fregiare del titolo di Chief of Staff per ben due presidenti: Ronald Reagan e il suo amico fraterno George H. W. Bush. Fu però durante il mandato di Bush senior che Baker coronò il suo sogno di diventare segretario di Stato, abbandonando il retro del palcoscenico per assurgere a protagonista assoluto della politica estera americana negli anni della fine della Guerra Fredda e della prima guerra in Iraq.
L’uomo che aveva intrecciato relazioni con i personaggi più influenti della politica americana e delle cancellerie occidentali riesce a forgiare un’ampia coalizione all’Onu contro Saddam Hussein nel 1990 e, allo stesso modo, si dice preoccupato per il crollo del Muro di Berlino e l’effetto che esso può avere nell’Europa orientale e in Urss. Baker era tutt’altro che convinto che la fine dell’Impero Sovietico sarebbe stata incruenta nonostante l’apertura di credito che l’amministrazione Usa aveva dato prima a Gorbaciov e poi, successivamente, a Boris Eltsin. Anni dopo aver condotto con successo gli Stati Uniti a una pax senza precedenti nella storia americana, ritroviamo Baker nel ruolo di capo del team di avvocati che aiutò George W. Bush a ottenere la presidenza nel 2000 a discapito di Al Gore. Fu lo stesso Bush padre a chiedergli di tornare in pista per il riconteggio dei voti in Florida, facendo leva sul suo spirito di servizio e sul suo passato di brillante avvocato in uno degli studi legali più importanti di Houston.
Ma la sua leggendaria riservatezza e la sua proverbiale socievolezza hanno anche un lato b: secondo gli autori del libro, Baker risentiva del successo degli uomini per cui lavorava, e, in una perfetta logica dei rapporti tra master and servant, non si sentiva mai adeguatamente ricompensato per il suo lavoro. A suo agio sui campi da golf più celebri d’America così come nei cocktail più esclusivi per diplomatici e beau monde di Washington, Baker nutriva in sé l’ambizione, un giorno, di potere essere lui stesso il presidente, anche se per molti lo è sempre stato.
“In Henry Kissinger and American power: a political biography”, Thomas A. Schwartz racconta un aspetto molto sottovalutato da tanti kissingerologi: l’uso della politica estera a fini interni e di riallineamento personale da parte del grande tessitore dell’apertura alla Cina. Per essere stato un grande attore della diplomazia di scuola realista Kissinger è stato un mandarino eminentemente politico, calato nel gioco dei partiti di Washington e desideroso di apparire indispensabile a ogni amministrazione. Secondo l’autore del libro, spesso i suoi celebri testi sulla politica estera sono stati più degli strumenti per corteggiare i presidenti e i segretari di Stato del momento che non delle opere con un discorso e una coerenza politica interna tali da farli apparire inattaccabili. Così, quando nel 1961 Kissinger dà alle stampe “The necessity for choice”, il suo lavoro è anche e soprattutto una job application rivolta al neo-eletto presidente John Fitzgerald Kennedy. Ma la sua abilità di cortegiano e le sua straordinaria capacità di auto-promozione non toglie nulla alla grandezza di un uomo che ha saputo navigare a Washington per oltre mezzo secolo, capendo prima di tutti quali erano gli interlocutori che gli sarebbero stati utili nel futuro. Solo una volta si sbagliò: quando definì “ben informato e intelligente” il vicepresidente Dan Quayle, credendolo destinato un giorno alla Casa Bianca. “Nel linguaggio di Henry – racconta nel libro l’editore del New York Times, Arthur Schlesinger – significava che quel politico era disposto ad ascoltarlo e a riverirlo”.
“Più politico che intellettuale” e “più tattico che stratega”: in fondo la conclusione di Schwartz suona come una condanna – piuttosto severa e molto discutibile – per un uomo rinomato per il suo intelletto e la propensione a concettualizzare soluzioni di lungo termine per il suo Paese.