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La bestia umana: è ora di riportare Auschwitz dentro la storia e costruire una coscienza antitotalitaria

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Ancora oggi la nostra concezione della storia del XX secolo risulta distorta a causa del compromesso storico tra democrazie e stalinismo

Non si possono onorare le vittime dell’Olocausto senza costruire giorno dopo giorno una coscienza antitotalitaria complessiva, integrale, assoluta

Nel novembre 2010 la New York Review of Books pubblicava un lungo articolo di Anne Applebaum sui totalitarismi del XX secolo. In realtà, si trattava di una recensione di due libri all’epoca appena usciti, Bloodlands: Europe between Hitler and Stalin di Timothy Snyder e Stalin’s Genocides di Norman M. Naimark. Citando il premio Nobel Czeslaw Milosz, autore tra gli altri dell’imprescindibile The Captive Mind, una delle più potenti denunce dell’ideologia comunista che siano mai state scritte, Applebaum riportava alcuni pensieri dello scrittore polacco dedicati al degrado dei sentimenti umani in tempo di guerra, quando tutto attorno si fa tetro e l’abitudine alla morte prende il sopravvento:

“La violenza di massa ha distrutto il naturale senso di giustizia dell’uomo. In tempi normali se qualcuno si fosse imbattuto in un cadavere abbandonato per la strada, avrebbe chiamato la polizia. Una folla di persone si sarebbe subito riunita, e ne sarebbero seguiti commenti e discorsi. Adesso quel passante sa che deve ignorare il corpo che giace a terra ed evitare di fare domande innecessarie”.

La banalità del male, la perdita dell’innocenza, di qualsiasi dimensione sociale, il rifugiarsi dentro se stessi, creandosi un mondo chiuso nel quale non si può essere attaccati. Osserva Milosz che all’attuale società occidentale manca la capacità, non solo di comprendere, ma perfino di immaginare simili tragedie (pensiamo specialmente al cittadino americano, che le ha vissute – almeno fino all’11 settembre – solo da lontano o in maniera mediata, ma anche a quei Paesi dell’Europa occidentale che non sono stati teatro, almeno di recente, di massacri di grandi proporzioni). È vero però che anche nella nostra epoca, fatte salve tutte le differenze del caso, un simile sentimento di estraneità alla realtà che ci circonda è comunque riscontrabile nei comportamenti quotidiani di molti di noi: secondo alcuni sociologi la nostra è l’età della perdita dell’empatia nei confronti del dolore altrui. Il parallelismo, ovviamente, non riguarda tanto l’origine del male, che nel caso degli stermini del secolo scorso era frutto di ideologie rivelatesi criminali mentre nell’odierno panorama di ordinaria alienazione è addebitabile ad una serie di concause molto più sfuggenti. Riguarda piuttosto la nostra reazione di fronte al male, lo scudo di protezione che ci costruiamo perché il sangue non ci macchi il vestito, o l’anima, fino a non porci più nessuna domanda.

Per spiegare meglio ciò che intendo, prendo a prestito l’interpretazione corrente delle analogie-differenze tra la realtà descritta da Orwell in 1984 e quella rappresentata da Huxley in Brave New World. Si può dire che il passato totalitario e la guerra hanno il loro corrispettivo nella censura, nel controllo capillare e nell’indottrinamento delle menti raccontato in 1984, mentre la contemporaneità smarrita, la perdita del senso della realtà, il rifiuto di alcuni valori essenziali alla convivenza, l’indifferenza, rientrano nelle categorie dell’eccesso di stimoli (visioni, desideri, informazioni) e della superficialità dei messaggi che ci vengono veicolati continuamente. Allora, se Orwell aveva completamente ragione sul XX secolo, Huxley ha parzialmente ragione sul XXI: la banalità del male si manifesta in forme e proporzioni diverse, ma è un eterno ritorno e non ci abbandona. Da qui la necessità di non cedere di un millimetro nella difesa delle società democratiche in cui viviamo, sia dall’attacco delle nuove/vecchie ideologie sia dalle sirene dell’apatia e della rassegnazione. “Il pacifismo è oggettivamente pro-fascista”, scriveva sempre Orwell, e se il “lasciateci in pace” è un comprensibile anelito in tempi di distruzione, diventa un’intollerabile scusa per la passività e l’inazione nelle epoche di benessere. Se avessimo sempre combattuto il male, tutto il male anziché solo una parte, forse avremmo risparmiato a noi stessi e soprattutto ad altri una lunga serie di incubi.

Incubi che tormentarono le notti degli abitanti di quelle “terre di mezzo” che da borderlands diventarono bloodlands, territori di frontiera intrisi del sangue di vittime innocenti. Proprio di questo si occupa il saggio di Snyder, dei popoli che dovettero subire la dominazione e le politiche di annientamento di entrambi i totalitarismi, quello nazista e quello comunista. Insomma di quelle anime perse che passarono due volte per il tritacarne dell’ideologia e ne rimasero brutalmente schiacciate. Polonia, Ucraina, Bielorussia, Paesi Baltici: qui rossi e neri si succedettero, si scontrarono, si spartirono il bottino, si alimentarono a vicenda. Qui Stalin e Hitler commisero crimini atroci sulle stesse popolazioni, con metodi ed obiettivi comuni. Qui l’artificiosa distinzione tra male assoluto e male necessario, mantenuta dai profeti dell’ipocrisia nei decenni successivi, perse fin da subito qualsiasi significato. Scrive Applebaum:

“La regione fu il centro della maggior parte dei massacri politicamente motivati in Europa – massacri che cominciarono non nel 1939 con l’invasione della Polonia, ma nel 1933, con la carestia in Ucraina. Tra il 1933 e il 1945, quattordici milioni di persone morirono in quell’area, e non in battaglia ma perché qualcuno prese la decisione di ammazzarle”.

Non a caso i nazisti potevano declinare le loro ambizioni sull’Ucraina dichiarando che il socialismo in un solo Paese sarebbe stato rimpiazzato dal socialismo per la razza tedesca; non a caso sia Hitler che Stalin scatenarono una guerra senza quartiere contro le élites intellettuali, politiche e religiose di quei Paesi; non a caso il trattamento dei prigionieri di guerra rispondeva su entrambi i fronti alle stesse logiche assassine, la morte per inedia e per abbandono nei rispettivi campi di detenzione (almeno nei primi anni di conflitto). Da qui la necessità di studiare le atrocità naziste e sovietiche come parte di una comune storia del terrore, perché è così che le vittime delle bloodlands le hanno vissute e patite. Snyder non compara esattamente i due sistemi, non è questo l’obiettivo del suo lavoro, ma riconosce nella loro interazione un fattore moltiplicatore in termini di vite umane. Pur con tutte le approssimazioni del caso, va giustamente in questa direzione la recente risoluzione del Parlamento europeo che equipara i crimini del nazifascismo a quelli dello stalinismo e che tanta polemica ha suscitato. Non solo il patto Molotov-Ribbentrop con il suo protocollo segreto di spartizione, quindi, ma una storia di violenza che nei fatti prende le mosse già negli anni anteriori.

Uno degli spunti di riflessione più interessanti viene dalla riconsiderazione che Snyder compie del ruolo dei campi di concentramento e dei prigionieri che vi furono rinchiusi. Contrariamente a quanto si è portati a pensare, la maggior parte delle vittime dei due regimi totalitari non trovò la morte nei lager e nel Gulag ma fu il prodotto di politiche di sterminio portate a termine con modalità e tempistiche diverse,  esecuzioni di massa, camere a gas, fucilazioni, decessi per fame indotti da politiche genocide. Sia nel caso tedesco che in quello sovietico i campi erano destinati allo sfruttamento di una enorme forza lavoro ridotta in schiavitù per alimentare le rispettive macchine da guerra (interne ed esterne). Certamente vi furono milioni di morti anche all’interno dei campi – per la durezza del lavoro, le precarie condizioni di vita e politiche deliberate di annientamento – ma gli internati, a differenza di coloro che vennero giustiziati in numero ben maggiore al di fuori dei sistemi concentrazionari, servivano vivi. Quell’Arbeit macht frei non era solo un macabro ghigno rivolto a chi entrava ad Auschwitz o a Dachau ma conteneva un fondo di verità (il lavoro forzato): tanto è vero che, mentre abbiamo immagini di sopravvissuti ai lager e al Gulag, praticamente non vi sono testimonianze dirette degli stermini di massa avvenuti nelle foreste, nelle campagne, tra le montagne, al riparo da sguardi indiscreti. Perché è importante questa valutazione? Perché fa cadere la falsa dicotomia, alimentata da decenni di ipocrisia politicamente motivata, tra campi di sterminio (nazisti) e campi di lavoro (comunisti), tra un sistema concepito per uccidere ed un altro in cui la morte era solo una possibile conseguenza, quasi un fattore accidentale, anche se accettato o previsto. In realtà sia il lager che il Gulag erano industrie di schiavi, luoghi in cui l’uomo veniva usato come bestia da lavoro e spremuto fino alle ultime conseguenze. Ma anche luoghi in cui, se in grado di lavorare al servizio dei propri carcerieri, un prigioniero aveva qualche possibilità di sopravvivenza. Sono questioni enormi, me ne rendo conto, che richiederebbero analisi molto più approfondite, ma si possono comunque tracciare alcune linee guida.

Nell’articolo citato al principio, Applebaum si sofferma sul concetto di genocidio, partendo dai limiti della sua definizione, frutto di una decisione essenzialmente politica, condizionata dagli equilibri scaturiti dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. L’opposizione dell’Unione Sovietica, una delle potenze uscite vittoriose dal conflitto, impedì che la definizione di genocidio adottata dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 includesse la distruzione intenzionale di gruppi politici, sociali ed economici. Soltanto i crimini commessi contro gruppi nazionali, etnici, razziali o religiosi rientrarono nel testo finale. I motivi sono ovvi dato che, se fosse andata diversamente, i sovietici avrebbero dovuto rispondere davanti alla comunità internazionale delle loro campagne omicide contro i nemici di classe e gli oppositori politici. Il vizio d’origine di questa definizione si sarebbe trascinato come un macigno nei decenni successivi, condizionando non solo il dibattito storiografico ma la stessa percezione dei massacri compiuti dai regimi totalitari da parte dell’opinione pubblica. Ancora oggi la nostra concezione della storia del XX secolo risulta distorta a causa del compromesso storico tra democrazie e stalinismo. Un patto col diavolo di cui, ancor più tristemente, hanno fatto le spese per quasi cinquant’anni i popoli dell’Europa dell’Est che avevano già sofferto le atrocità delle anteriori occupazioni e della guerra. Alla liberazione di una parte del continente corrispose la consegna dell’altra metà alla dittatura comunista, un peso politico e morale difficilmente sostenibile per chiunque abbia combattuto in nome della democrazia:

“Come risultato, liberammo metà del continente al prezzo dell’asservimento dell’altra metà durante cinquant’anni. La realtà è che vincemmo la guerra contro un dittatore genocida con l’aiuto di un altro. Fu un finale felice per noi, ma non per tutti”.

Il silenzio calato sulle terre dell’Europa orientale non fu solo quello imposto da Mosca e dai gerarchi comunisti che, per conto dell’Unione Sovietica, reggevano le sorti dei rispettivi paesi, ma ebbe il suo corrispettivo anche nella pavida e spesso complice condiscendenza delle classi politiche e soprattutto delle élites culturali occidentali, ben liete queste ultime di farsi portavoce delle parole d’ordine dell’ideologia e di propagandare le virtù del socialismo reale. È un’onda lunga la cui portata non si è ancora esaurita.

Ma torniamo al genocidio, per concludere. Uno dei problemi fondamentali è che la sua definizione pone l’accento più sulla categoria delle vittime che non sulla responsabilità degli esecutori. È come se considerassimo omicidio solo l’uccisione di uomini con certe caratteristiche di età, peso e titoli accademici, lasciando il resto dei comuni mortali senza protezione giuridica. Un nome è solo un nome, si dirà. Ma non nelle corti di giustizia, dove la forma è sostanza, e nemmeno nella valutazione del crimine di massa da parte della collettività. Da qui la reticenza di politici, storici e società civile a qualificare come genocidi una serie di massacri la cui corrispondenza alla definizione ufficiale non fosse strettamente ed immediatamente attribuibile, come se per le vittime facesse qualche differenza, come se la gravità e la portata di un crimine di stato dipendessero non tanto dalle caratteristiche oggettive dell’atto (numero di morti, modalità di esecuzione, intenzionalità, conseguenze e così via), quanto da una decisione politica presa a tavolino in un preciso momento storico e dettata da esigenze di realpolitik.

Applebaum fa riferimento, tra gli altri, al classico caso del genocidio armeno, oggetto di controversie politico-diplomatiche mai del tutto risolte. Ma perfino uno storico dell’Unione Sovietica del calibro di Robert Service, nel suo A History of Modern Russia, evita di qualificare la carestia ucraina come genocidio sulla base del fatto che gli ucraini in quel momento non costituivano che il 70 per cento della popolazione del territorio colpito e che in senso stretto Stalin non avrebbe perseguito una politica di annientamento di un gruppo etnico in quanto tale. Naimark, al contrario, in Stalin’s Genocides assume che, anche in base all’attuale enunciato della Convenzione delle Nazioni Unite, i crimini del regime staliniano nei confronti della popolazione ucraina, dei kulaki, e di altri gruppi etnici minoritari sarebbero atti di genocidio. Tutto ciò rende necessaria una ridefinizione del concetto o, meglio, un suo superamento. A mio avviso occorrerebbe parlare semplicemente di stermini di massa o, come suggerisce Applebaum, di “assassinî di massa compiuti per ragioni politiche”. Questa democratizzazione del termine, aumentandone il valore universale e superando le limitazioni imposte da compromessi diplomatici che nulla hanno a che vedere con la sofferenza delle vittime, consentirebbe anche di chiarire una volta per tutte un equivoco sul quale generazioni di studenti e di storici si sono costantemente incagliati: quello dell’unicità dell’Olocausto. Ragioni, di nuovo, prevalentemente ideologiche hanno suggerito a molti – e non parlo qui degli ebrei, i quali forse hanno diritto a considerare la loro situazione storica da un punto di vista non strettamente obiettivo – di mantenere Auschwitz in una categoria a parte, in un luogo della memoria collettiva separato dal resto, come se si trattasse di una parentesi avulsa dalla storia, di una tragedia non paragonabile ad altre esperienze analoghe. Io credo che nella pretesa unicità della Shoah si nasconda il rischio della rimozione di tutto quanto Shoah non sia. Non si può capire l’Olocausto senza inserirlo nella storia dei totalitarismi del XX secolo. Non si possono onorarne le vittime senza costruire giorno dopo giorno una coscienza antitotalitaria complessiva, integrale, assoluta. È proprio perché questa presa di coscienza collettiva non si è realizzata (e in molti casi non è nemmeno cominciata) che dopo quell’unicum ce ne sono stati altri. Se si avesse finalmente il coraggio di collocare Auschwitz dentro la storia si comincerebbe a colmare il divario che separa il commemorare dal ricordare per non ripetere. Non basta dire mai più. Bisogna crederci sempre e in qualunque luogo. Troppe vittime aspettano ancora che si renda loro omaggio, troppi campi della morte devono ancora ospitare il loro 27 gennaio, troppi carnefici sono stati perdonati dal sonno della memoria. Mai più.

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