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La bolla dei media liberal e il rischio di una via illiberale all’antipopulismo. Intervista a Luigi Curini

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Luigi Curini è professore ordinario di scienza politica all’Università Statale di Milano e visiting professor alla Waseda University di Tokyo, Giappone, ed è esperto di comportamenti elettorali, competizione politica e social media.

MARTINO LOIACONO: Professore, partiamo dalla vittoria di Trump: perché non è stata ancora accettata?
LUIGI CURINI: Accettare qualcosa significa comprenderlo. Il passo della comprensione è un passo necessario e si deve fondare su un processo di razionalizzazione che non è ancora avvenuto. Secondo i media liberal Trump ha vinto per gli errori di Hillary e perché i maschi bianchi della Rust Belt hanno votato seguendo i loro istinti razzisti e la loro stupidità. Una lettura piuttosto superficiale. I media americani, come ha ammesso il direttore del New York Times all’indomani della vittoria di Trump (salvo poi dimenticarselo subito dopo), non hanno compreso lo scenario perché hanno descritto solo una parte di America, dimenticando quella a loro sconosciuta. Tutto ciò può essere chiarito grazie ad uno studio del MIT sulle elezioni del 2016. In questa ricerca emerge chiaramente che sui social media (e in particolare su Twitter) c’erano due bolle distinte tra loro, una per Hillary e una per Trump e che tutti i giornalisti erano vicino al nucleo di chi sosteneva la Clinton. Gli stessi giornalisti, dunque, vivevano all’interno della propria bolla che autoriproduceva la sua stessa immagine secondo la quale al di fuori di quell’orizzonte c’erano i deplorables, una minoranza rozza che non avrebbe potuto spostare gli equilibri politici. Ed è successo proprio il contrario.

ML: Che ruolo hanno avuto le fake news nelle elezioni americane e in quelle italiane? Quanto è stato ingigantito il loro peso a livello elettorale?
LC: Partiamo da una premessa importante. Internet è stato considerato per un lungo periodo la nuova agorà virtuale, una nuova fonte di democrazia deliberativa che avrebbe permesso la partecipazione politica dei cittadini e dei giovani. Poi, però, sono arrivate la Brexit e la vittoria di Trump, cioè la vittoria del “male”. Da quel momento è nato il ritornello che conosciamo: gli elettori sono dei buzzurri e sono facilmente influenzabili dalle fake news che circolano sul web. Dal 2015 Internet, nella narrazione dei media e in una parte della letteratura scientifica è diventato il regno del grande male, il regno della manipolazione. Per capire la questione delle fake news bisogna superare questo approccio manicheo e capire quando sono nate e qual è il loro peso sugli elettori. Esse esistono da sempre, come la propaganda che ha rappresentato in modo distorto fatti ed eventi politici. Sono qualcosa di connaturato alla dinamica politica. La vera novità è che, per la prima volta nella storia, la disinformazione può essere creata bottom-up, dunque dagli utenti. L’altro tema, spesso trattato grossolanamente, è l’equazione tra l’esistenza di fake news e la loro influenza diretta sui comportamenti elettorali. Tale equazione è fallace, perché tutti gli studi scientifici sottolineano che essere esposti a fake news non influenza il comportamento di voto in modo sostanziale. Non bisogna stupirsi perché tutti i cittadini hanno un’interazione peculiare con l’informazione politica. Tendenzialmente, non si considera quella distante da sé, e non si ha fiducia in essa, mentre si assorbe l’informazione coerente al proprio punto di vista. Il problema delle fake news rimonta a tutto ciò. Il tema non è quello della loro esistenza, perché queste sono connaturate ad un medium decentrato come internet, il vero problema è il loro impatto sulle modalità con cui gli elettori processano l’informazione e sul loro comportamento di voto. Alcuni hanno proposto la censura ma questo potrebbe essere pericoloso. È giusto operarla (correndo dunque un rischio vero) per prevenire un rischio potenziale e ancora tutto da verificare (l’influenza delle fake news sul comportamento di voto)? Tra l’altro su Facebook si stanno verificando episodi del genere. Censurando alcuni account, spesso solo di una parte politica, Facebook si trasforma da social media che raccoglie informazioni a publisher, perché decide quali informazioni devono passare e quali no. Un tema piuttosto sottovalutato.

ML: I media tradizionali sono davvero i tutori del Vero?
LC: In primis, affermare di essere i guardiani della verità significa affermare che la verità esiste, e questo è un problema epistemologico importante. In politica, ancor di più. Quello che di sicuro esiste è un certo tipo di narrazione sovente influenzata dalle credenze e dalle convinzioni del giornalista quando parla di politica. Il lettore è capace di distinguere tutto ciò. Se la maggioranza dei giornalisti ha una determinata posizione ideologica, ma spesso distante dalla posizione dell’elettore mediano, si hanno due effetti importanti: da un lato una narrazione lontana dall’opinione comune; poi, di conseguenza, la non comprensione dei risultati elettorali da parte dei media. Gli elettori votano in modo differente rispetto alle modalità con cui i giornalisti descrivono alcuni temi. Non ci si può sorprendere quando si guardano i dati, e si vede la distanza tra l’elettore mediano e il giornalista mediano. La crisi di fiducia nella stampa in molti Paesi, compresa l’Italia, non è quindi casuale.

ML: Quanto pesa il politicamente corretto nel sistema politico e nel sistema informativo?
LC: Il politicamente corretto è determinante, soprattutto in America. Operando come una religione civile tende a distinguere il vero dal falso, punendo o mettendo a tacere chi si distanzia dalla stessa. Essa distingue il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, senza vie di mezzo. Se si conosce cosa è giusto e cosa è sbagliato, si può compiere ogni tipo di azione. Con i giusti distinguo, questa era la dinamica con cui nei regimi comunisti si mandavano i dissidenti in manicomio. Se si conosce la verità e si sa cosa è giusto, si può fare qualsiasi cosa contro chi propone idee diverse. Bisogna riconoscere che in Italia tutto ciò non è ancora penetrato, almeno non negli stessi livelli. Negli Stati Uniti questa tendenza è invece fortissima. E l’elezione di Trump è stata anche una reazione a questo clima in cui regna il verbo unico. La sua vittoria non è quindi spiegabile solo ricorrendo a spiegazioni economiche (o peggio economiciste). La sua elezione può essere considerata anche come una reazione culturale e valoriale a cui bisogna riconoscere legittimità politica, nonostante venga messa in dubbio dai meccanismi del politicamente corretto. In un sistema democratico, teoricamente, dovrebbe avere luogo una competizione tra valori che possono piacerci o meno, ma che, se legittimi, devono essere discussi.

ML: Le hai parlato di una via illiberale all’antipopulismo.
LC: Esistono alcuni antipopulisti militanti che assumono delle posizioni antiliberali esattamente come chi vorrebbero combattere, perché rifiutano l’esistenza di posizioni politiche altre (rispetto alle proprie, beninteso) su tematiche suscettibili di discussione. Basti pensare alla questione migranti, all’estensione dei diritti civili o all’Europa. Il tema è che questi argomenti devono poter essere discussi e anche le posizioni diverse dalla propria devono essere legittime e non squalificate a priori. Definire come illegittime idee semplicemente perché diverse dalla propria significa uscire dalla democrazia liberale.

ML: Da qui nasce la polarizzazione…
LC: Sì, dallo scontro tra populisti militanti e antipopulisti militanti aumenta l’impossibilità di discussione. Ci deve essere un contesto di valori su cui tutti devono concordare e su cui si può fondare un dialogo costruttivo e un dibattito democratico. A me sembra che certe posizioni dell’antipopulismo militante abbiano ridotto l’area di sovrapposizione del consenso – per riprendere un autore tra l’altro assai caro a taluni di questi antipopulisti militanti come John Rawls – ai solo loro valori, e tutto ciò che è altro viene riconosciuto come illegittimo. Questo scontro è pericoloso, un muro contro muro serio.

ML: Come si muove Salvini in questo contesto?
LC: Salvini è un animale politico come Bossi, nel senso più alto del termine. Ha capito quale fosse la strategia migliore da utilizzare nel contesto attuale. Non ha voluto cambiare il cittadino come proposto da taluni “competenti”, ma mettersi sul suo stesso piano senza alcun tipo di presunzione. Questo può essere un aspetto criticabile, ma è anche una delle ragioni principali del suo successo. L’ottica del dialogo con l’elettore è ben diversa dall’approccio spocchioso di chi taccia di ignoranza l’elettore medio. Mi stupisco che la sinistra non lo abbia ancora capito…

ML: Quali sono gli scenari del futuro?
LC: Come divertimento, ma non troppo, ho analizzato, attraverso un modello computazionale, tutti i tweet pubblicati da marzo ad oggi sugli account ufficiali Twitter dei principali leader politici italiani, e a livello comunicativo e di linguaggio è emerso che Salvini è molto vicino a Grillo e a Di Maio, più vicino di quanto è alla Meloni per intenderci. E, invece, lontanissimo da Berlusconi. Quest’ultimo, da parte sua, è vicinissimo a Tajani e anche a Renzi. Zingaretti è distante da Renzi, e anche da Salvini, ma è piuttosto vicino ai 5 Stelle. Tutto questo apre due prospettive: la prima è l’emergere di un nuovo tripolarismo, foriero di instabilità. Da una parte un centrosinistra guidato dai 5 Stelle e con il Pd a seguire. Dall’altra parte la Lega con la Meloni, al centro Berlusconi e Renzi. Il secondo scenario è che la coalizione gialloblu possa durare a lungo, magari superando le europee, e diventare un’alleanza politica stabile.

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