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La “bomba” Ilva un altro regalo alla Cina: ed esplode proprio mentre Di Maio brinda con Xi

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La crisi della siderurgia italiana apre ancor di più le porte alle importazioni di acciaio cinese: Italia anello debole, mentre Di Maio brinda con Xi e nemmeno Renzi può cancellare le sue impronte

Il ritiro di ArcelorMittal dall’ex Ilva aggiunge una bomba economica e sociale ad una bomba ambientale. La chiusura di una delle più grandi acciaierie d’Europa (10.700 operai, di cui 8.200 nello stabilimento di Taranto, il doppio nell’indotto, 3,5 miliardi di euro di acciaio prodotti ogni anno) sarebbe infatti un colpo micidiale all’industria siderurgica italiana e all’occupazione. Tra le motivazioni principali che hanno indotto la compagnia a gettare la spugna, la cancellazione del cosiddetto “scudo penale” che avrebbe dovuto tutelare dirigenti ma anche quadri intermedi dalle iniziative della magistratura: non una immunità totale e a tempo indeterminato, ma una salvaguardia limitata per rendere possibile l’attuazione del piano ambientale.

La norma è stata soppressa da un emendamento dell’ex ministro Lezzi (M5S), appoggiato dalle altre forze di maggioranza (Pd e Italia Viva), al decreto “salva-imprese”, ormai da ribattezzare “chiudi-imprese”. Il problema di fondo, sottolineato anche nella nota di AM, è “l’incertezza giuridica e operativa” (fai un accordo, un privato è pronto a investire oltre 4 miliardi, ma te lo rimangi). Così la compagnia franco-indiana se ne va e a Taranto non avremo né bonifica ambientale, né produzione e posti di lavoro. Un capolavoro, da cui stavolta Matteo Renzi non può cancellare le sue impronte. I “competenti” del Pd e di Iv sprofondano seguendo a ruota l’ideologia della decrescita dei 5 Stelle… Però hanno evitato di consegnare “pieni poteri” a Salvini, continuano a rivendicare. Dopo che il Conte 1 aveva già tentato di far saltare lo scudo, e che a luglio l’azienda aveva chiarito di non poter gestire lo stabilimento di Taranto senza di esso, il governo con Di Maio al Mise lo aveva reintrodotto. Quando il decreto inizia il suo iter in Parlamento lo scudo è dentro: salta definitivamente solo con il voto M5S-Pd-Iv in Senato dello scorso 22 ottobre. E d’altra parte, se fosse saltato già con il governo giallo-verde, con i voti anche di Salvini, AM avrebbe comunicato il suo ritiro già questa estate, non avrebbe certo aspettato il 4 novembre. Purtroppo per loro, per quanto Renzi e i “competenti” si sbraccino, non c’è provvedimento adottato dal governo giallo-verde o promesso/minacciato (a seconda dei punti di vista) da Salvini paragonabile per devastazione economica, sociale, ambientale e diremmo anche culturale, al voto che ha portato AM a comunicare il recesso e che rischia di determinare la chiusura dell’ex Ilva.

Fa sorridere amaramente, ora, che dal governo e dalle forze di maggioranza si contesti il diritto di AM al recesso, spiegando che non ce ne sarebbero i requisiti giuridici. Come ha spiegato anche l’ex ministro dello sviluppo Calenda, l’accordo “non prevede espressamente il diritto di recesso in caso di modifica dello scudo penale, ma nel caso di un cambiamento di normative rilevanti”, tale da mettere in discussione la sostenibilità del piano industriale e l’attuazione di quello ambientale. E alibi o no, ci pare proprio questo il caso, visto che nemmeno l’art. 51 del codice penale basta a tutelare i dirigenti dell’azienda, come dimostrano le vicende giudiziarie.

Si è parlato di un “pasticcio”, il segretario nazionale della Fim Cisl Marco Bentivogli ha parlato di “capolavoro di incompetenza e pavidità politica”. Ma davvero si può pensare che si tratti solo di questo? No, dal momento che non solo l’azienda aveva inequivocabilmente chiarito quale sarebbe stato l’esito della soppressione dello scudo, ma anche tutte le rappresentanze sindacali avevano avvertito le forze politiche che, pena la rescissione del contratto, le norme non si potevano modificare. Nessuno, insomma, poteva non sapere.

Dunque, chi ha votato per sopprimere lo scudo lo ha fatto deliberatamente per spingere il gruppo franco-indiano dell’acciaio, il più grande del mondo, a desistere dall’acquistare l’ex Ilva, o almeno mettendo nel conto di poter provocare il suo disimpegno. Perché? Cui prodest? È probabile che sulla pelle dell’economia nazionale e di migliaia di lavoratori le forze di governo stiano giocando partite diverse, ciascuna con il suo cinico calcolo, o meglio con le sue illusioni…

Il ritorno dell’amministrazione straordinaria per poi far ripartire una nuova gara di aggiudicazione? Matteo Renzi sarebbe già a lavoro, secondo quanto riporta la Repubblica, per far rientrare in partita più o meno la stessa cordata che ai tempi del governo Gentiloni aveva perso la gara contro AM: Jindal, già proprietario delle ex acciaierie Lucchini di Piombino (dove ritroviamo “l’amico fraterno” di Renzi, Marco Carrai, nel cda), il gruppo Arvedi e Cassa Depositi e Prestiti.

Mentre il Pd appare semplicemente paralizzato (Zingaretti si trincera dietro un “io l’avevo detto”, ma senza sapere come uscirne), l’ala dura del Movimento 5 Stelle che ha imposto la soppressione dello scudo, su cui Di Maio si è infine convinto, sembra invece puntare alla nazionalizzazione, se non alla dismissione e chiusura del sito di Taranto.

“Le conseguenze per la filiera – avverte il presidente di Federacciai, Alessandro Banzato – sarebbero enormi, esponendo tutti sempre di più alle dinamiche delle importazioni, ma sarebbero pesanti anche per la siderurgia italiana nel suo complesso che è, ricordiamolo, la seconda in Europa e la decima al mondo”.

Di nuovo: cui prodest? A chi conviene? Chi si avvantaggerebbe di più da questo duro colpo inferto all’industria siderurgica italiana ed europea?

Le produzioni francesi e tedesche, quella turca, certo, ma soprattutto quelle asiatiche, perché oggi la posizione dominante in Europa non ce l’ha un produttore europeo piuttosto che un altro, ce l’hanno le importazioni asiatiche, in particolare quelle cinesi accusate di dumping. Un buco nero nel siderurgico italiano come la perdita dell’ex Ilva, tra i più grandi impianti in Europa, aprirebbe ancor di più le porte alle importazioni cinesi.

Tra l’altro, come spiega Bentivogli a Radio Radicale, quello dell’ex Ilva è “un acciaio del ciclo integrale, di qualità, quello che serve nell’automotive e nel ferroviario” e “fare ricorso alle importazioni sarebbe un problema doppio per l’Italia rispetto anche agli altri Paesi europei, dal momento che il nostro Paese è piccolo e povero di materie prime (…) se ci priviamo del primario del settore metalmeccanico ci priviamo di sovranità industriale”. E, aggiunge il segretario di Fim Cisl, sulle importazioni asiatiche di acciaio “non abbiamo alcuna garanzia di qualità, né di non nocività (…) Nei Paesi asiatici non c’è alcun controllo di qualità e nelle nostre Dogane non abbiamo nemmeno rilevatori radiometrici per riscontrare eventuali nocività, tra cui la radioattività”. “Dobbiamo pretendere precisi standard di qualità dei settori consumatori, che acquistano e consumano acciaio a livello europeo, per la sicurezza delle persone nelle abitazioni, nelle automobili e nelle infrastrutture”, ma su questo “la Germania non ci ha aiutato, ha sempre osteggiato l’anti-dumping europeo, perché la Thyssenkrupp ha stabilimenti propri in Cina”.

Il caso ha voluto che mentre in Italia esplodeva la “bomba” dell’ex Ilva, il ministro degli affari esteri Luigi Di Maio fosse proprio in Cina, per il China International Import Expo (CIIE). Di Maio ha partecipato alla cena di benvenuto offerta ai capi di stato e di governo, pur essendo soltanto un ministro. Ma per lui il presidente cinese Xi Jinping ha fatto un’eccezione, invitandolo personalmente.

Si intravedono l’abilità e l’esperienza di Ettore Francesco Sequi, ambasciatore d’Italia a Pechino non a caso nominato capo di gabinetto da Di Maio solo poche ore dopo il giuramento del Governo Conte 2, a conferma della priorità assoluta che il ministro attribuisce ai rapporti con la Cina.

Anche se l’export cinese verso l’Italia sale e il nostro verso la Cina scende, Di Maio non manca di ricordare in ogni occasione di aver “voluto fortemente che l’Italia aderisse alla Nuova Via della Seta“. Italia e Cina non sono “mai state così vicine”, ha rivendicato ieri al CIIE, poco prima di un brindisi a base di prosecco con il presidente Xi passato a visitare il padiglione italiano. Per protocollo non avrebbe dovuto bere, ma Xi l’ha fatto, “ha bevuto!”, se la rideva ieri un raggiante Di Maio: “È un piacere averla qui, le mostro le nostre eccellenze”. “Sono molto onorato di essere qui e delle relazioni Italia-Cina e guardo con interesse e attenzione alla visita del presidente Mattarella (nel 2020 per i 50 anni delle relazioni diplomatiche, ndr)”, ha replicato il presidente cinese.

Interrogato dai media italiani sulle proteste a Hong Kong, Di Maio si è fatto portavoce della linea di Pechino: “L’Italia non vuole interferire nelle questioni interne di altri Paesi”. Persino Francia e Germania, che esportano molto più di noi in Cina, almeno qualche parola di preoccupazione l’hanno pronunciata sulla repressione in corso a Hong Kong.

Insomma, sembrano lontani i tempi in cui Di Maio chiamava “Ping” il presidente cinese. Solo due mesi fa, ricorda Gabriele Carrer su La Verità, così lo presentava l’agenzia cinese Xinhua: “Non si è mai laureato, ha competenze linguistiche molto limitate e ha mostrato scarso interesse per le questioni globali nella sua vita pubblica”. In questi giorni, invece, il ministro degli esteri Wang, suo omologo, l’ha definito “un politico giovane molto in gamba” con “una grande visione strategica”.

Come ha ammesso a Shanghai il ministro Di Maio, l’adesione alla Nuova Via della Seta è “prima di tutto una grande apertura di relazioni tra noi e la Cina, è una grande apertura di credito reciproca. Va oltre la semplice questione degli investimenti e del commercio estero”. Parole che suonano come la conferma dei peggiori timori americani sul valore politico, e geopolitico, della firma del Memorandum of Understanding.

In prima linea, e fiore all’occhiello, tra le imprese italiane accompagnate dal ministro Di Maio in Cina, troviamo Leonardo (ex Finmeccanica). Il primo gruppo italiano nel settore della difesa, sotto la guida del suo presidente, Gianni De Gennaro, e dall’ad Alessandro Profumo, ha contribuito allo sviluppo dell’aviazione civile e dell’aeronautica cinese: oltre 70 radar per il controllo del traffico aereo installati nei principali aeroporti cinesi, oltre 130 elicotteri “Leonardo” impiegati in Cina, in importanti settori. E ora chissà quanti altri progetti in cantiere.

Di Maio ha anche annunciato la firma tra il porto di Trieste e China Communications Construction Company per lo sviluppo di zone industriali sino-italiane: “Significa aprire a progetti infrastrutturali di collaborazione tra i nostri porti e tutte le attività portuali della Cina”. Citati anche i porti di Genova e Taranto.

Una coincidenza, ovviamente, che tutto questo avvenga negli stessi giorni in cui ArcelorMittal annuncia il suo ritiro dall’ex Ilva e solo pochi giorni dopo che Di Maio, da capo politico del M5S, ha dato il via libera all’emendamento che l’ha provocato, ma è evidente che la grave debolezza politica ed economica del nostro Paese, la deindustrializzazione in atto, come dimostra il caso dell’ex Ilva, ci rendono l’anello debole, una facile preda per Pechino che conquistando noi punta ad aumentare la sua influenza in Europa e allontanarla dagli Stati Uniti. In particolare, l’uscita dell’Italia dall’industria dell’acciaio significherebbe aprire ancor di più le porte, non solo nostre ma dell’intera Europa, alle importazioni cinesi.

Altro che hate speech e bot russi, bisognerebbe istituire una commissione parlamentare che indaghi sull’influenza della Cina nelle scelte di politica estera e industriale dei nostri ultimi governi.

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