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La caduta di vent’anni di illusioni: il ritorno (necessario) del nazionalismo economico e la cooperazione intra-occidentale

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È venuto il momento di affrontare la realtà. In particolare, comprendere che il volto benigno della Cina è una maschera dietro la quale si nasconde, come sempre è stato e sempre sarà nella politica internazionale, un attore il cui primario interesse è quello di ascendere nella scala della potenza, soppiantando in ultimo gli Stati Uniti e diventando il nuovo egemone. Per l’Occidente, Italia inclusa, è imperativo che un sistema a guida statunitense non venga soppiantato da uno a guida cinese

Il Cigno Nero, l’evento imprevedibile ma dalle conseguenze potenzialmente devastanti, si è infine verificato: la diffusione del Covid-19 sta avendo e avrà un impatto enorme, ancora difficilmente quantificabile, a livello globale. Paesi come l’Italia, già provati economicamente, accuseranno maggiormente il colpo ma nessuno ne uscirà illeso. Nella tragedia, tuttavia, è necessario non perdere di vista l’unico valore che un momento di crisi porta con sé, ossia la capacità di disvelare problemi ignorati o sottovalutati, portare alla luce dinamiche che per forza di inerzia o per disattenzione sarebbero rimaste sottotraccia. Tra queste, sono di primaria importanza gli attuali rapporti dell’Occidente con la Cina e l’approccio tenuto sulla globalizzazione.

Per anni l’Occidente si è cullato nell’illusione che la fine della Guerra Fredda avesse significato la fine della competizione tra potenze, che un nuovo ordine fosse sorto e fosse forte al punto tale da cambiare le regole delle relazioni internazionali. Mentre l’Occidente si apriva e offriva l’ambiziosa strada dell’estensione del suo ordine, numerosi Paesi ne hanno approfittato per accrescere la propria potenza e influenza, violando ripetutamente le regole del sistema per interesse nazionale.

Nonostante le avvisaglie sul fallimento della strategia di apertura occidentale siano presenti da tempo, mai come oggi appare chiaro il danno provocato da vent’anni di illusioni. Ad esempio, i tappeti rossi stesi alla Cina non sono serviti a risparmiare l’Occidente da pratiche commerciali scorrette e dalla crescente assertività sul piano geopolitico. Mentre l’Occidente era distratto da altre questioni, spesso frivole, la Cina si è resa indispensabile nella catena di produzione globale. L’emergenza Covid-19 ha drammaticamente evidenziato che la Cina produce più del 50 per cento delle mascherine in circolazione, che numerosi principi attivi necessari per i nostri medicinali sono prodotti in Cina, che la globalizzazione ha anche dei limiti e che in un mondo fortemente interconnesso il diffondersi di un virus è molto più facile, soprattutto quando il Paese di origine nasconde e non comunica la gravità della situazione per settimane, impedendo al resto del mondo di prendere le dovute precauzioni. Diviene palese, in sostanza, la propria condizione di dipendenza e vulnerabilità.

È da rilevare come negli Stati Uniti la questione sia da tempo oggetto di discussione. Donald Trump ne ha fatto un tema centrale della campagna elettorale e della sua presidenza, con i suoi costanti affondi contro la Cina. La volontà di riportare in America il settore manifatturiero e contrastare le pratiche commerciali scorrette cinesi sono alla base della politica adottata verso Pechino. Negli scorsi anni, inoltre, è stata sempre più evidenziata la dipendenza statunitense dalla Cina in settori strategici, addirittura per gli approvvigionamenti di componenti o materiali essenziali al buon funzionamento delle Forze armate. L’arrivo del Covid-19 ha messo a nudo la dipendenza americana anche per quanto concerne il settore farmaceutico: per comprendere la gravità della situazione basti pensare che più dell’80 per cento dei principi attivi presenti sul mercato statunitense sono prodotti all’estero (in particolare in Cina e in India) e che il 95 per cento delle importazioni di ibuprofene, il 91 per cento delle importazioni di idrocortisone, il 45 per cento delle importazioni di penicillina e il 40 per cento delle importazioni di eparina provengono dalla Cina. Inoltre, il 97 per cento degli antibiotici presenti sul mercato americano sono prodotti da aziende cinesi. I timori statunitensi di un possibile sfruttamento di questa dipendenza come un’arma da parte di Pechino si sono rivelati presto fondati: l’agenzia di Stato cinese Xinhua, ad esempio, ha evidenziato come la Cina potrebbe imporre stringenti limitazioni all’export di prodotti farmaceutici, con esiti devastanti per gli Stati Uniti. Da tempo politici americani hanno evidenziato gli enormi rischi legati alla dipendenza dalla Cina e, recentemente, sul tema è tornato il senatore Marco Rubio, chiedendo un aumento della produzione interna nel settore farmaceutico.

L’Italia non è immune da questo rischio, seppur la nostra posizione attualmente sia migliore rispetto a quella di Washington. Inoltre, il crollo delle borse e la crisi economica che colpirà l’Occidente provato dal Coronavirus potrebbe aprire spazi importanti per scalate ostili alle nostre aziende strategiche. Ancora una volta, la Cina potrebbe approfittarne. Il Copasir ha lanciato l’allarme nelle parole del suo presidente Raffaele Volpi: “I tempi richiedono un’immediata risposta che declini in modo palese e non interpretabile che l’Italia userà tutti i mezzi possibili per difendere le proprie aziende strategiche e l’interesse nazionale”. Similmente è intervenuto anche il deputato della Lega Paolo Formentini, che ha dichiarato a Formiche.net come sia necessario innalzare il livello d’allerta per tutelare l’interesse nazionale italiano. Inoltre, ha giustamente sottolineato come i “doni” cinesi – che poi doni sono solo in parte – siano da inquadrare nella giusta ottica: sono uno strumento politico e non arrivano a costo zero. Inoltre, è da rilevare come il governo italiano non abbia accolto allo stesso modo gli “aiuti” provenienti da Pechino, ricevuti in pompa magna, e gli aiuti, veri, provenienti da Washington, passati sottotraccia. Il rischio di essere sempre più vincolati nel nostro agire nei confronti della Cina è concreto.

Una volta passata la crisi data dal Coronavirus, dunque, sarà impellente un serio ripensamento del nostro approccio alla globalizzazione, ai rapporti con la Cina e alla sicurezza economica e nazionale. Innanzitutto, la nuova crisi non arresterà il percorso della globalizzazione – anche se difficilmente preserverà tratti identici al pre-Covid – ma la globalizzazione come concetto e fenomeno va ripensata. Per anni l’Occidente si è illuso che essa portasse con sé unicamente vantaggi. La delocalizzazione delle imprese nazionali e l’assottigliamento progressivo del settore manifatturiero non sono stati visti come un problema ma come un’opportunità, o comunque come un esito inevitabile della globalizzazione. Inoltre, sotto la bandiera dell’apertura dei mercati si è ritenuto possibile convincere Paesi non occidentali a entrare a far parte del nostro ordine liberale. Per tale ragione, spesso sono state tollerate pratiche economiche scorrette di molti Paesi – Cina in primis – senza ottenere altro che un indebolimento relativo dell’Occidente a vantaggio dei competitor internazionali. È venuto il momento di affrontare la realtà. In particolare, comprendere che il volto benigno della Cina è una maschera dietro la quale si nasconde, come sempre è stato e sempre sarà nella politica internazionale, un attore il cui primario interesse è quello di ascendere nella scala della potenza, soppiantando in ultimo gli Stati Uniti e diventando il nuovo egemone. Per l’Occidente, Italia inclusa, è imperativo che un sistema a guida statunitense non venga soppiantato da uno a guida cinese.

Inoltre, è fondamentale preservare le nostre industrie strategiche, evitando di svenderle al “migliore” offerente: come affermato anche nell’ultima National Security Strategy degli Stati Uniti, la sicurezza economica è sicurezza nazionale. Anche Francia e Germania, ad esempio, iniziano a muoversi in questo senso, con alti vertici del governo che dichiarano la volontà di preservare le aziende strategiche ad ogni costo. In questa prospettiva è necessario tornare a riflettere in chiave di nazionalismo economico: se l’autarchia non è né possibile né tanto meno desiderabile, non lo è nemmeno la situazione opposta, ossia la dipendenza che impedisce al Paese di riuscire a fronteggiare una crisi di proporzioni rilevanti in quanto privo di asset strategici. Soprattutto, quando tale dipendenza è nei confronti di Stati non appartenenti al mondo occidentale. Quest’ultima è una variabile rilevante: in un sistema internazionale in cui la potenza defluisce dall’Occidente al resto del mondo, i Paesi euro-atlantici saranno sempre meno in grado di affrontare le sfide del domani. La cooperazione intra-occidentale, anche economica, sarà dunque importante e l’asse transatlantico da preservare ad ogni costo per mantenere un peso specifico adeguato nel sistema. Ciò si ottiene attraverso un’alleanza di Stati sovrani che – pur preservando, all’interno del blocco occidentale, le proprie peculiarità e difendendo specifici interessi nazionali – si compattano quando è necessario affrontare sfide globali, consapevoli che non può esserci migliore alleato di chi condivide simili identità, valori e storia. Al contrario, l’approccio da “potenza normativa”, fortemente burocratizzata, dell’Unione europea, è inadatto al sistema caotico del futuro e va decisamente ripensato. La scommessa di creare un attore capace di rivoluzionare il modo di fare politica internazionale è fallita, e diviene sempre più palese con lo scorrere del tempo. Riassumendo, l’Italia deve tornare a fare la politica internazionale invece che subirla. Questo significa mettere da parte l’approccio esclusivamente multilateralista e neutralista in favore di una politica estera attiva, capace di assumere posizioni nette e, quando necessario, assertive. Solo così l’Italia sarà in grado di affrontare le acque tempestose nelle quali oramai ci troviamo.

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