Il governo italiano ha condotto in Europa una trattativa e la ha persa. Cercava una garanzia sul rifinanziamento del debito pubblico. I Paesi del Nord vogliono che alla bisogna provveda il risparmio italiano, che sanno sovrabbondante. La loro vittoria è sancita dalle nuove condizioni di accesso al MES, uguali alle vecchie. Il ministro Gualtieri è di fronte a scelte drastiche e non può a lungo rinviarle. Mario Draghi ha già presentato il manifesto per il dopo-Gualtieri
Testo. Una malattia cinese, ad assai basso indice di mortalità ma quanto mai contagiosa, ha causato la crisi dell’infrastruttura ospedaliera italiana. Il governo Conte ha reagito, mettendo l’intera economia e società nel gabbio. Per termine indefinito, continuamente rinviato: ieri il 3 aprile, oggi il 16 maggio, domani chissà. Con una vena di auto-punizione, come dimostrano il caso dell’industria meccanica (chiusa in Italia, ma non in Germania e Turchia), dell’acciaio (chiusa in Italia, ma non in Austria e Germania), della ceramica (chiusa in Italia, ma non in Spagna).
Servirebbe emettere nuovi Btp per 200 miliardi, oltre a rifinanziare 350 miliardi dei vecchi. Bce ne comprerà 200: al massimo, solo quest’anno e nel caso migliore che la corte costituzionale tedesca di Karlsruhe non fermi tutto prematuramente.
Non sorprendentemente, ferve il dibattito su come evitare il default del debito pubblico italiano.
Cominciò Conte, chiedendo accesso ad un prestito ESM “senza condizionalità”. Respinto con perdite da Germania ed Olanda, che offrivano sì una “condizionalità leggera”, ma includente la Troika, a Roma estremamente sgradita, per i motivi che vedremo.
Conte rilanciava, chiedendo l’emissione di un Eurobond. Per l’occasione battezzato coronabond. Poi ribattezzato European Recovery Bond, con la specifica di volerlo mettere al servizio, non di prestiti agli Stati, bensì di un programma di spese federali, lo European Recoyery and Reinvestment Plan, vera e propria carambola dove si può trovare di tutto, dai respiratori di oggi allo European Green Deal di domani.
Apparentemente, debito acquistato da Bce (con lo scopo di aggirare il divieto di finanziamento monetario degli Stati), emesso da un veicolo a piacere ma garantito dal patrimonio dello ESM (con lo scopo di aggirare gli obblighi di condizionalità colà presenti). Veicolo che, poi, si preoccuperebbe di spendere esso stesso quei denari, non di prestarli agli Stati (con lo scopo di non aggravare il bilancio italiano di nuovi debiti).
A Conte rispondeva l’Olanda, come si fa coi mendicanti: promettendogli un “dono” da 10 o 20 miliardi, a fondo perduto. E che la smettesse lì.
Replica conclusiva del ministro tedesco Scholz, che al diktat precedente includeva la beffa: lo ESM avrebbe potuto dedicare alla bisogna appena il 2 per cento del Pil dei Paesi questuanti. Beffa contenuta, per giunta, in una lettera congiunta con Norbert Walter-Borjans, il neo-presidente della SPD, uno molto “de sinistra”: a negare, ai federalisti nostrani, pure l’estrema speranza.
Poi, certo, Berlino offriva pure una cosa chiamata “S.U.R.E.”, una nuova linea di credito a finanziare i contratti di solidarietà. 100 miliardi, ma raccolti a fronte di garanzie rilasciate dai Paesi membri, non dal MES; da ripartire fra tutti i Paesi questuanti pure non membri dell’Euro; e, prevedibilmente, a condizione di aver modificato la propria legislazione sul lavoro sul modello tedesco. Gentiloni già si preoccupa non venga pronta “tra due anni”.
Eppoi garanzie aggiuntive BEI sui crediti privati. 50 o 200 miliardi ancora non si sa, ma finanziati con garanzie rilasciate dai Paesi membri, non dal MES; e da ripartire pure fra i Paesi non membri dell’Euro.
Premio di consolazione, la abolizione dell’obbligo di cofinanziamento nazionale degli investimenti realizzati con i fondi strutturali europei. Questa sì una iniziativa utile all’Italia, giacché era tale obbligo (e non “la burocrazia”), in connessione con la cronica crisi del bilancio italiano, ad impedirne l’utilizzo. Per converso, ciò significa pure che l’Italia cesserà di essere un contributore netto al bilancio Ue: a segnare un processo di marginalizzazione ormi conclamato, che riduce ormai irrimediabilmente il nostro peso negoziale, proprio nel momento in cui il governo pretenderebbe di esercitarlo.
Primo sottotesto – il deconsolidamento. La posizione negoziale di Conte è, a prima vista, apertamente provocatoria: egli non poteva non sapere come ogni tipo di Eurobond sia, presso olandesi e tedeschi, oggetto di anatema.
La spessa retorica federalista che ha accompagnato la proposta di Conte, non è di alcun aiuto alla comprensione. Ad esempio Fabbrini: il coronabond, come dimostrazione che “esiste un interesse europeo (alla salute, alla ripresa) distinto da quello dei singoli stati”; Calenda: “Eurobond che servono a garantire all’Europa i fondi per agire, non per finanziare l’Italia o la Spagna”; D’Alema: “Gli eurobond non servono a finanziare noi, ma ad aprire una nuova stagione dello sviluppo e della civilizzazione europea”. Figurarsi.
Guardando meglio, Cottarelli, Galli e Letta spiegano che di cosa diversa si tratta: tali Eurobond verrebbero rimborsati con risorse pagate dagli Stati proporzionalmente all’ammontare di risorse ricevute. Sicché, Germania e Olanda non avrebbero esborsi, presenti o futuri, salvo partecipare con la propria quota già versata dei fondi ESM trasferiti al nuovo veicolo.
Naturalmente, Roma avrebbe pure vantaggi di tasso, ma li avrebbe pure con il prestito diretto ESM: dunque, non è questo il punto in discussione.
Il vero scopo di Roma è evitare di contabilizzare un prestito diretto (come sarebbe quello dello ESM) nel debito pubblico. Sostituendolo con un canone annuo, a deficit ma non a debito pubblico. Alla maniera di come fanno le imprese che rifinanziano un mutuo (a bilancio) con un debito leasing (fuori bilancio).
Non di “federalismo” si tratterebbe, quindi, ma di ottimizzazione contabile.
Così si spiegano alcune affermazioni, altrimenti sorprendenti, di Conte: “Questi titoli non sono in alcun modo volti (…) a far sì che i cittadini di alcuni Paesi abbiano a pagare anche un solo euro per il debito futuro di altri. Si tratta – piuttosto – di sfruttare a pieno la vera potenza di fuoco della famiglia europea (…) Non chiediamo a nessuno di remare per noi, perché abbiamo braccia forti”.
Facile, per i tedeschi, rispondere che le ottimizzazioni contabili hanno le gambe corte: Eurostat potrebbe comunque riqualificare il leasing come debito e riconsolidarlo nel gran libro del debito pubblico italiano.
Per poi aggiungere, che i fondi da loro versati allo ESM, se pur trasferiti al nuovo veicolo desiderato da Conte, lo stesso verrebbero messi a rischio da una eventuale insolvenza italiana. E che, per conseguenza, è necessario venga comunque la Troika.
Secondo sottotesto – le condizionalità. Di fronte alla Troika, Roma par dare in escandescenze. Grida che saremmo tutti sulla stessa barca. Ad esempio il ministro Amendola: “Da questa crisi si esce soltanto insieme, con un grande sforzo internazionale. Nessun Paese può salvarsi da solo”. Peccato per lui che 550 miliardi di soldi tedeschi per le imprese tedesche stanno lì a dimostrare il contrario. Denari che inevitabilmente accentueranno il vantaggio competitivo tedesco dentro mercato unico ed Eurozona, e non si vede perché Berlino dovrebbe dolersene.
Roma pretende, con il Corriere, che l’Eurobond sia “garanzia finanziaria a tutela del mercato unico”. Come se il mercato unico coincidesse con l’Eurozona, il che manifestamente non è. È pur vero, come scrive la Reichlin, che “la crisi potrebbe accelerare la de-globalizzazione, rendendo il mercato europeo ancora più importante, per la Germania”, ma ciò vale pure per l’Italia: a prescindere dal modo che si troverà di finanziare il debito pubblico italiano, Germania e Italia hanno eguale e pari interesse a tener aperto il mercato unico delle merci e dei servizi. Il rischio per la Germania, semmai, è che l’economia italiana definitivamente collassi, immolata sull’altare dell’Euro come vuole la Reichlin. Ciò che ci ha recentemente ricordato il capo dello ESM, Klaus Regling, con parole sue: “Se si vuole preservare la sopravvivenza del mercato unico (…) È interesse di ogni Stato membro dell’Unione che anche tutti gli altri riescano a superare questa crisi”.
Roma giunge alla sfrontatezza di minacciare “la crisi terminale della terza economia dell’euro” (Marta Dassù), che “sarebbe devastante per tutti” (Lucrezia Reichlin), cioè di farsi esplodere. Quando a tedeschi ed olandesi è perfettamente noto che l’Italia ha un avanzo commerciale enorme, e non ha debito estero netto. Di nuovo Klaus Regling, con parole sue: “There are no huge macroeconomic imbalances in the euro area, which is very different from 10, 12 years ago”. Il che è come dire: voi italiani, i soldi, li avete: il settore privato italiano sarebbe tutt’altro che incapace di finanziare il debito italiano, anzi. Davvero non si vede perché lo Stato italiano, debba andare a mendicare aiuti finanziati, direttamente od indirettamente, dallo Stato tedesco.
Cosa mai di diverso dovrebbero rispondere, i tedeschi!? Alle Dassù ed alle Reichlin che chiedono loro, per finanziare lo Stato italiano: di emettere debito che sarebbe sottoscritto da quegli stessi privati italiani che non vogliono finanziare direttamente lo Stato italiano… di agire da schermo e garante, caricando di rischi i contribuenti tedeschi, nell’esclusivo interesse degli Italiani esportatori di capitali…
Perciò, conclude Regling, le condizioni imposte oggi dallo ESM, sarebbero molto diverse da quelle imposte allora alla Grecia ed ai suoi compagni di sventura. E quali potrebbero essere queste condizioni, se non ricondurre al loro naturale rapporto il risparmio ed il debito italiano?
Eccole, le tanto temute condizioni che ci imporrebbe la Troika. Che i suddetti protagonisti italiani, esorcizzano sotto espressioni tipo “uscita unilaterale dall’euro”: perché, per loro, l’Euro non è un cambio fisso, bensì la libera circolazione dei capitali.
Caporetto. Sia come sia, nelle riunioni riservate in preparazione dell’Eurogruppo del 7 aprile, il presidente Centeno sta facendo proprio il diktat del ministro Scholz. Subìto dal ministro francese Le Maire, come consuetudine. La bozza di compromesso, oggi sul tavolo, pare essere fatta di cinque pezzi:
- il rispetto delle regole di bilancio e delle raccomandazioni Ue (cioè nuove “riforme strutturali”, se non forse pure nuova austerità);
- la periodica analisi di sostenibilità del debito del Paese debitore;
- una cifra offerta, assai modesta (per l’Italia, circa 36 miliardi);
- il rango privilegiato dei prestiti ESM, sul resto del debito pubblico;
- il rinvio della proposta italiana (nel frattempo divenuta “francese”), ad un successivo futuribile dibattito, a babbo morto.
Può darsi che tale bozza, a titolo di “proposta” per il Consiglio europeo (plausibilmente rinviato a dopo Pasqua), venga approvata. In tal caso necessariamente con voto unanime, quindi pure del governo italiano. Ciò non significherebbe che quest’ultimo vi riponga alcuna fiducia, anzi: è lo stesso presidente dell’Eurogruppo ad ammettere, apertis verbis, che, per evitare la “frammentazione” della Eurozona, sarebbe necessario accettare la proposta “francese”.
Né significherebbe che lo stesso il governo italiano abbia intenzione di azionarla.
Significherebbe soltanto, che le carte sono scoperte: la massima offerta tedesca è ora nota urbi et orbi. Massima offerta tedesca, che pare essere stata pensata proprio per impedire che Roma la azioni.
Roberto Gualtieri. Tutte queste cose, il ministro Gualtieri le sa. O dovrebbe saperle. Infatti, di fronte alla bozza giunta all’Eurogruppo, la delegazione italiana pare aver ricevuto istruzioni di fare la faccia scura. Con la benedizione di Romano Prodi, addirittura.
Non perché prevede nuove “riforme strutturali”, giacché quelle il Pd le ha sempre volute.
Il motivo per cui Gualtieri è scontento della bozza, è che essa include la periodica analisi di sostenibilità: in qualunque momento, “se il debito del Paese esposto si rivela per la maggioranza qualificata degli Stati non sostenibile, si può imporne la ristrutturazione immediata”. La via brutta della ristrutturazione, della patrimoniale o del prestito forzoso che, certo, si potrebbe evitare, realizzando la via dolce della sola imposizione del controllo movimenti dei capitali. Ma siccome egli è espressione di un partito che mette la libera circolazione dei capitali avanti a qualunque diritto costituzionale, farebbe volentieri di tutto per difenderla.
Senza contare l’ostilità di parte dei 5 Stelle, contrari alla Troika tout-court, così come pure la Lega all’opposizione.
E così, mentre Conte girovaga ogni giorno con una nuova proposta, vediamo Gualtieri rinviare l’agonia. Prima, ritardando ogni esborso di cassa, dunque immolando la sopravvivenza economica di milioni di famiglie ditte società italiane. Poi, gingillando i propri sostenitori con il sogno che la proposta “francese” all’Eurogruppo faccia qualche passo avanti. Infine, baloccandosi con la idea del prestito a lungo termine o irredimibile; idea già ventilata da Monti e De Bortoli, essa viene oggi ripresa dal viceministro Misiani, dalla Grande Sardina (quel tal Sartori) che spiega, “se non la chiamassimo patrimoniale, i cittadini sarebbero meno reticenti (…) si potrebbe chiamare prestito di solidarietà” e, persino, da Giovanni Bazoli: “Non bastano cento miliardi; ne servono trecento”.
I numeri sono esatti, irridente è il loro affidarsi alla “virtù civica e repubblicana” per collocare un simile titolo, il cui valore rappresenterebbe una modesta frazione del capitale investito. Il collocamento sarebbe, dunque, forzoso. Esso implicherebbe, perciò, l’immediata imposizione dei controlli movimenti capitali: poiché nessuno lascerebbe depositi su una banca italiana, dopo aver subito un simile esproprio. Un eventuale tentativo in tal senso di Gualtieri sarebbe, perciò, disperato.
Vedremo se Gualtieri avrà la dignità di accelerare l’inevitabile, per poi ritirarsi a vita privata; ovvero prolungherà l’agonia sino al 5 maggio p.v., quando Karlsruhe, con sentenza sul QE, si periterà di interrompere anticipatamente l’ora d’aria concessaci da Bce.
Mario Draghi. In questo stallo, giunge improvviso uno strano articolo di Mario Draghi. Nel quale viene invocato un drastico aumento del debito pubblico, l’oblio della regolamentazione bancaria prudenziale. Viene fornito pure lo slogan: “A change of mindset”, rivoluzione mentale. E “Fate presto”.
E l’Europa? Ah già, l’Europa. Un richiamino, un omaggio di stile. Giusto in chiosa.
Come finanziare tutto ciò? Non vien detto. Ma la “guerra al coronavirus” viene esplicitamente paragonata alla Prima Guerra Mondiale: tutto meno che un’epoca di libera circolazione dei capitali. Eppoi, la promessa: “Such an increase in government debt will not add to its servicing costs”, il costo del debito sarà nullo.
Il che appare perfettamente contraddittorio con le preoccupazioni di Gualtieri.
Più importante, appare perfettamente incompatibile con la Troika. Il che significa che, di fronte alla bozza giunta all’Eurogruppo, Draghi pare avere la stessa reazione di Gualtieri: ma per ragioni apparentemente diverse.
Pure lui non è certamente ostile a nuove “riforme strutturali”, le ha sempre volute.
Quanto alla “analisi di sostenibilità” del debito pubblico, immaginiamo egli la sappia ridondante, una volta accettata la fine della libera circolazione dei capitali. Ed immaginiamo possa essere qui la chiave del sostegno che gli mostra la Lega, con buona pace di quelli come Calenda.
Quanto alla modestia dei 36 miliardi offerti, egli conosce meglio di Gualtieri quanto sia illusorio immaginare di integrarla con acquisti Bce anch’essi modesti, dopo che Karlsruhe ha riscritto il programma OMT: da illimitato come lo aveva scritto lui, a limitato e quindi inutile. E tanto più alla luce della prossima sentenza di Karlsruhe sul QE, che ribadirà gli stessi concetti.
Quanto al rango privilegiato dei prestiti ESM, sul resto del debito pubblico, Draghi forse ripete a se stesso la famosa frase di Tremonti, pronunciata a Cannes nel 2011, mentre rifiutava una linea di credito del FMI: “Ci sono modo migliori di suicidarsi”.
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Insomma, il giorno che Conte e Gualtieri avranno posto fine alla propria agonia, è possibile che Draghi giunga: non per un mero cambio di cavallo, a seguire le stesse politiche di pria; bensì per un cambio di politica. Eventualmente radicale.