EsteriQuotidianoTwitter Files: la censura social

La censura come metodo di governo prende piede in Occidente: la cancellazione di Joe Rogan

4.3k
Esteri / Quotidiano / Twitter Files: la censura social

Nella caccia internazionale a quella che viene sommariamente definita disinformazione, la nuova balena bianca porta il nome di Joe Rogan. Il conduttore del podcast più seguito al mondo è sotto attacco negli Stati Uniti, accusato prima di aver sparso disinformazione sul Covid-19, e ora di razzismo.

La vicenda inizia, almeno ufficialmente, quando la vecchia gloria del rock Neil Young minaccia di ritirare la sua musica da Spotify se non viene censurato il podcast di Joe Rogan, accusato di disinformazione Covid. “O lui o io!”, intima Young a Spotify.

Spotify non ci sta a pensare su molto. Joe Rogan è una gallina dalle uova d’oro, Neil Young molti non ricordano nemmeno chi sia. Tuttavia, l’autocensura di Young fa qualche proselito tra altri musicisti, ma soprattutto crea un caso mediatico. Il caso monta, e presto quello per censurare Joe Rogan diventa un movimento, e i nomi che minacciano di lasciare Spotify iniziano a farsi sempre più prestigiosi, includendo anche l’ex presidente Barack Obama. Tuttavia, molte altre celebrities, politici, influencer, e membri dell’informazione sono schierati con Rogan.

Sotto pressione, Spotify accetta di aggiungere uno degli ormai familiari disclaimer da social media ad alcuni episodi giudicati di argomento sensibile del podcast. Joe Rogan rilascia un video in cui spiega la sua posizione, ammette di non essere perfetto, ma fa anche notare che nessuno lo è, compresi i media tradizionali, e ribadisce la sua dedizione alla pluralità dell’informazione.

La carica mediatica è guidata dalla Cnn, che già da un po’ ha un contenzioso aperto con Rogan. Il network di Atlanta è in profonda crisi. I rating affondano e si ritrova travolto da molteplici scandali sessuali ed etici. La sua credibilità è messa in discussione, al punto che molti elettori Democratici, che rappresentano il suo ascoltatore tipo, stanno addirittura ripiegando sull’odiato anchorman di Fox News Tucker Carlson.

Ma tutti sanno che sono davvero i media alternativi e indipendenti, spesso in forma di podcast o streaming, a portare via audience ai grandi network televisivi. E questo malgrado la censura, le demonetizzazione, lo shadow banning, e tutte le altre misure implementate da qualche anno a questa parte da Big Tech per ridurne l’influenza. Tutti sanno che se le news televisive soffrono di un deficit di credibilità è per la loro evidente partigianeria politica, accompagnata da un sensazionalismo da reality show. Quando dagli studi della Cnn il conduttore Brian Stelter lamenta che la gente tenda a preferire figure come Joe Rogan piuttosto che le “vere newsroom” come la Cnn, si guadagna scherni da tutte le direzioni.

Considerato l’erede del terzo millennio di Ophra Winfrey, Rogan è un personaggio a dir poco eclettico. Un istruttore di arti marziali diventato comico, poi attore, poi presentatore televisivo e commentatore sportivo, è diventato un nome popolare grazie al suo podcast nato quasi per scherzo nel 2009, quando decide di mettere su uno studio arrangiato a casa sua e invitare i suoi amici a discutere i fatti più vari.

Quel piccolo podcast è crescito costantemente fino a diventare il Joe Rogan Experience, il più ascoltato del mondo. Si è trasferito dal salotto di Rogan a studi dedicati sempre più grandi, e dai guadagni provenienti dalla monetizzazione dei click su Youtube a un contratto con Spotify del valore stimato di cento milioni di dollari.

Gli ospiti si sono evoluti dai compagni di bevute di Rogan a scienziati, stelle di Hollywoood, e candidati presidenziali. Rogan ha lanciato numerosi personaggi diventati fenomeni globali, come lo psicologo barra filosofo canadese Jordan Peterson. Oggi i vip fanno a gara per assicurarsi un posto a sedere davanti a Joe Rogan nel suo studio, ma l’ecletticità è rimasta. Un giorno Joe Rogan intervista un esperto di economia, il giorno dopo parla di Ufo, un giorno l’ospite è un importante politico, il giorno dopo uno sconosciuto pescatore sportivo d’alto mare.

È proprio questa autenticità ad essere il segreto del successo del Joe Rogan Experience. Joe rimane un uomo semplice, intellettualmente curioso verso il mondo che lo circonda. Malgrado il successo non si è mai montato la testa. Il suo atteggiamento non è cambiato, rimane quella di un uomo della strada senza forzature. Siede dall’altra parte del tavolo rispetto ad un prestigioso intellettuale indossando jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta con qualche logo di arti marziali. Nel Joe Rogan Experience l’eco dei talk show televisivi patinati degli anni ’80-’90 è completamente estinto.

Ma il vero segreto del suo successo è che come intervistatore Joe Rogan sa il fatto suo. Lascia parlare l’ospite, chiede di spiegare ciò che non è chiaro, approfondisce ogni questione fino ad eviscerarla. Il format “long talk” dei podcast è diventato un successo presso il pubblico per reazione ai format televisivi fatti di clip video interrotte dalla pubblicità e comitati di “esperti” con trenta secondi per parlare.

Politicamente Joe Rogan è eclettico quanto il suo podcast. È generalmente di sinistra, ma ha anche posizioni conservatrici e libertarie. Ostile all’autoritarismo, favorevole al welfare, pacifista, avido cacciatore e difensore del diritto possedere armi da fuoco, antiproibizionista, uomo di famiglia con un matrimonio solido sulle spalle, difensore dei diritti dei gay e dei transessuali, ma sospettoso della teologia woke. Rogan non segue nessuna linea di partito, e le sue posizioni sono sempre sfumate. Fa sempre uno sforzo per vedere i due lati della medaglia. Cresciuto in una famiglia di ex-hippie, conserva molte delle suggestioni di quella controcultura, specialmente quella al dialogo, alla comprensione, e al riavvicinamento degli opposti.

Questa particolare forma di indipendenza di pensiero e moderazione l’ha spesso fatto finire nei guai con i suoi stessi fans, che lo apprezzano in quanto uno dei pochi capaci di rompere il monopolio mediatico del pensiero unico, ma al tempo stesso lo criticano come un po’ soft.

Per esempio, nel 2019, in un momento in cui le pressioni sui social media a favore della censura iniziavano a farsi serie, Rogan invita al suo podcast l’allora ceo di Twitter Jack Dorsey, passando però tutto il tempo a parlare d’altro. I fans delusi insorgono. Rogan rimedia reinvitando Dorsey, questa volta accompagnato da una dei legali di Twitter, a discutere di censura col giornalista indipendente ed esperto di digital media Tim Pool. L’episodio che ne risulta è considerato un classico dei podcast e una pietra miliare nel dibattito sulla censura in internet, e ha più di sei milioni e mezzo di visualizzazioni solo per l’episodio completo.

Dall’inizio della pandemia del coronavirus Rogan ha gestito il suo podcast da persona media qual è. Non ha dato vita a deliri no-vax su nanobots iniettati sottopelle, ma non ha nemmeno seguito l’esempio di molti media tradizionali, appiattiti su qualunque versione ufficiale proveniente dalle autorità. Fedele alla sua missione di allargare la comprensione degli eventi, ha ospitato voci da entrambe le parti della barricata.

Le polemiche sul suo trattare l’argomento Covid iniziano quando Rogan nel 2020 esprime il parere che il vaccino non sia necessario per i giovani e le persone generalmente sane. In seguito Rogan contrae il Covid, e dietro prescrizione medica si cura con un cocktail di medicine che includono un trattamento a base di monoclonali e Ivermectina. Questo avviene in concomitanza con la bizzarra polemica sull’Ivermectina “farmaco per cavalli”. La Cnn, che ha dato voce a false notizie di ospedali intasati per overdosi da Ivermectina, attacca Rogan veementemente, ridicolizzandolo per essersi curato con un farmaco veterinario.

In seguito Rogan, intervistando nel suo podcast Saanjay Gupta, uno dei medici esperti in Covid che appare regolarmente sulla Cnn, gli fa presente che il farmaco ha sì una versione veterinaria, ma è pensato per gli esseri umani, anche se la sua efficacia per la cura del Covid è in quel momento in discussione, e accusa la Cnn di… disinformazione. Gupta non può negare e se la cava con una risposta confusa, ma la Cnn torna alla carica. Don Lemon ribadisce che non è incorretto dire che si tratta di una “medicina per cavalli” in quanto viene usata per i cavalli, e non è approvata per l’uso specifico contro il Covid, anche se è comune per uso generico sugli umani. Rogan risponde dando a Lemon dell’imbecille e dicendo che la Cnn sta “riducendo la sua autorità”.

Ma la vera polemica scoppia quando Joe Rogan ospita, a breve distanza l’uno dall’altro, il dottor Peter McCullough, prestigioso cardiologo, e il dottor Robert Malone, uno dei padri della tecnologia mRNA. Entrambi sono medici dissidenti che hanno molto da ridire sulle misure Covid prese dai governi, e puntano il dito verso case farmaceutiche e comitati scientifici, che accusano di aver abbandonato il metodo scientifico in favore di un consenso che ignora tutti i fatti che non collimano con la narrazione predeterminata.

La verità è che non è Joe Rogan ad essere cambiato dall’inizio della pandemia, ma la tolleranza per la pluralità delle opinioni. La definizione di no-vax si è costantemente allargata da quanti pensano che i vaccini siano veleno a quanti, anche da vaccinati, contestano misure come i lockdown, gli obblighi e i passaporti vaccinali.

“Il problema che ho con il termine disinformazione, specialmente oggi – dice Rogan nel video in cui spiega la sua posizione – è che molte delle cose che abbiamo considerato disinformazione fino a poco tempo fa sono ora accettate come fatti. Per esempio, fino a otto mesi fa se avessi detto che col vaccino puoi ancora infettarti e infettare con il Covid, saresti stato rimosso dai social media. Alcune piattaforme ti avrebbero messo al bando. Ora è un fatto accettato. Se avessi detto non credo che le mascherine di stoffa funzionino, saresti stato messo al bando dai social media. Ora è apertamente e ripetutamente affermato dalla Cnn. Se avessi detto credo sia possibile che il Covid-19 provenga da un laboratorio, saresti stato bandito da molti social media. Adesso è sulla copertina di Newsweek.”

La decisione di Spotify di etichettare gli episodi del Joe Rogan Experience che parlano di Covid con un avvertimento finisce per essere, come ormai regolarmente accade, il classico dito concesso per poi perdere il braccio.

Gli appelli al “deplatforming”, cioè a rimuovere il podcast completamente, si moltiplicano. L’appello a fermare la disinformazione si è trasformato in un appello alla cancellazione, che ora coinvolge perfino la Casa Bianca, con la portavoce di Biden Jen Psaki che esorta Spotify a “fare di più.”

Nel mondo in cui esistono intere organizzazioni di attivisti che ricevono ricche donazioni per ottemperare al compito esclusivo di monitorare l’attività internet dell’opposizione politica alla ricerca di scandali, gli episodi del Joe Rogan Experience vengono spulciati alla ricerca di qualsiasi cosa. Alla fine dallo show viene messo insieme un video fatto di clip fuori contesto con varie situazioni al limite.

La polemica riguarda soprattutto l’uso da parte di Joe Rogan del termine “nigger”. Si tratta di un termine dispregiativo nei confronti degli afroamericani il cui uso è considerato giustamente un taboo sociale, ma che ha subito la strana evoluzione da termine che non può essere usato da nessuno per denigrare, a termine completamente impronunciabile per chi non è afroamericano. In altre parole, non è più considerato razzista insultare una persona di colore dandogli del “nigger”, ma anche solo pronunciare la parola, che va invece sostituita con l’eufemismo “N-word”, per indicare che si tratta di un termine razzista. Perciò, se non si è neri, anche dire: “Tizio ha dato del nigger a quella persona di colore, che orribile cosa”, è di per sé prova di razzismo perché quel termine non dovrebbe mai sfiorare labbra non afroamericane.

E questa è esattamente l’accezione in cui Joe Rogan è stato “pizzicato” a usare la parola: per indicare altri che l’hanno usata, o osservando quanto sia bizzarra la stessa idea di un termine che può essere utilizzato in molteplici accezioni da una categoria di persone, ma non da tutti gli altri.

Un altro degli esempi incriminati riguarda una divertente storia raccontata da Rogan in cui si era recato con un gruppo di amici a vedere “Il Pianeta delle Scimmie”, finendo per sbaglio in un quartiere afroamericano. La storia è un esempio di un altro nuovo stile, quello “sei gradi di separazione”, per cui il razzismo si manifesta, e viene provato, attraverso una serie di passaggi: Pianeta delle Scimmie=scimmie=Africa=afroamericani=razzismo.

Chiunque abbia seguito almeno un po’ Joe Rogan non ha il minimo dubbio che non esista una molecola di razzismo nel suo corpo, ma nell’era in cui il termine razzismo viene continuamente allargato e ridefinito, passando da una definizione oggettiva e comunemente accettata a sempre nuove definizioni ideologiche dettate da attivisti, questo ha poca importanza.

Spotify è entrato in modalità panico e ha iniziato a rimuovere centinaia di episodi del Joe Rogan Experience. Joe Rogan stesso ha rilasciato un nuovo video di chiarificazione e semi-scuse, che probabilmente è un altro dito che parte prima del resto del braccio.

Le implicazioni di questa strana storia sono però molto più profonde dello stile comunicativo di Rogan, dei suoi bisticci con la Cnn, e anche della rivalità tra media tradizionali e alternativi. È assolutamente inquietante che la Casa Bianca faccia appello diretto a una compagnia privata perché provveda alla censura di fonti di informazioni che contestano la linea ufficiale del governo. E deve portare a riflettere sull’attuale connubio tra politica, burocrazia statale, media e, sempre più spesso, anche grandi aziende, dell’alta tecnologia o della farmacologia che siano. Come ha scritto il giornalista Glenn Greenwald:

“Tutti quanti sanno che se Spotify rimuove Rogan, lui si sposterà su un’altra piattaforma con i suoi milioni di ascoltatori. Il motivo di tutto questo è: 1) Negargli la credibilità di una grande piattaforma corporativa. 2) Vilificarlo e ostracizzarlo per prevenire una sua ulteriore crescita. 3) Creare un esempio per gli altri.”

Ma ancora di più, i tentativi di cancellare Joe Rogan e il suo show sembrano allinearsi a un nuovo, inquietante, stile di governance che sta prendendo piede in Occidente per cui le politiche, economiche o sociali che siano, non vengono più discusse in un ambito democratico, bensì decise da esperti tramite un procedimento dall’alto verso il basso.

In quest’ottica, la persuasione del “demos” viene giudicata una deleteria perdita di tempo, e la discussione diventa di conseguenza distruttiva. Conta solo “il parere degli esperti”, termine snaturato dal suo significato originario, e in realtà ridefinibile come “esperti in accordo con il governo”, quando non “attivisti”. È un viatico per mettere fine alla discussione politica, se non alla politica stessa. In fondo, qualunque misura presa da qualunque governo è presa “con il “parere degli esperti”. È facile vedere come da qui il consenso, la narrazione unica, diventino imperativi, e pertanto lo diventi anche la censura.

Peggio ancora, difficile a quel punto per la politica, e per tutto l’apparato di consenso che gli ruota intorno (media, burocrazia, mondo accademico), resistere alla tentazione di confondere dissenso con eresia, differenza di opinioni con stupidità o mancanza di sofisticazione. Di etichettare i propri avversari politici come semplici beoti e, nel passo successivo, malvagi. Da cancellare. Da rimuovere dalla vita pubblica.

Così come pure diventa facile associare qualunque forma di dissidenza a frange estremiste, delle quali non c’è mai carenza volendo andarle a cercare, una “colpevolezza per associazione” che può prendere indifferentemente la forma della ridicolizzazione (l’ignorante no-vax), o della demonizzazione (il violento estremista). Se Hitler era vegetariano, i vegetariani sono Hitler.

Il pattern seguito nei tentativi di cancellazione di Joe Rogan e del suo podcast è esemplificativo a questo riguardo. La prima accusa è quella di “disinformazione”, seguita da un’accusa di turpitudine morale (razzismo). Di solito segue un accusa di associazione con pericolosi elementi estremisti e perfino, per quanto sembri incredibile essere arrivati a questo punto, di violenza.

Lo stesso pattern sembra ad esempio all’opera in Canada nella reazione del primo ministro Justin Trudeau all’agitazione dei camionisti che chiedono la revisione dei molti mandati anti-Covid in vigore in quel Paese. Trudeau in passato aveva definito chiunque non sia vaccinato contro il Covid-19 una “minoranza” di “negazionisti della scienza” che “occupa spazio”, spesso composta da “misogeni e razzisti estremisti”, chiedendosi infine se occorra “tollerare questa gente”. Un esempio piuttosto eclatante di caduta nella tentazione di vilificare il dissenso.

Quando un convoglio di camion si è messo in moto dal British Columbia con l’intenzione di raggiungere la capitale Ottawa, fino a diventare il convoglio più lungo mai registrato, e dando il via ad un’occupazione di protesta che prosegue ormai da due settimane senza incidenti, in un clima festoso e pacifico, come ha reagito il complesso governativo/burocratico/mediatico canadese?

Inizialmente i media hanno apertamente mentito, dicendo che si trattava di una protesta dei camionisti per la condizione delle strade. Poi hanno tentato di minimizzare e di tenere la copertura mediatica al minimo. Per giorni, guardando i media canadesi ci si trovava di fronte a un irreale mondo parallelo in cui il convoglio più grande del mondo non esisteva. Mentre sui social media, nei podcast, in tutti i media alternativi, non si parlava di altro con un’abbondanza di video e immagini mai vista prima.

Quando è diventato impossibile ignorare il convoglio, è iniziata una demonizzazione sfruttando e ingigantendo sporadici episodi e la presenza alla protesta di esattamente due bandiere con la svastica e di una bandiera confederata. La televisione di stato canadese ha perfino suggerito che i camionisti fossero “attori russi”. Dinamiche che ormai conosciamo bene anche in Italia…

Il governo ha bollato l’intera protesta come razzista, accusato i camionisti di intimidazione (ovverosia violenza), e da lì non si è più schiodato, rifiutando anche solo di incontrare i rappresentati della protesta. Ha però dato il via a una campagna di pressione su aziende private, come GoFundMe, affinché boicottino il convoglio.

Eppure, si tratta di una protesta pacifica e di ampio respiro. Ai camionisti si sono uniti lungo la strada agricoltori, cowboys e cittadini comuni. Importanti intellettuali del Paese si sono schierati con il convoglio. Brian Peckford, l’ultimo in vita tra i padri della patria autori della Costituzione canadese, è tornato dalla pensione per fare causa al governo Trudeau per gravi violazioni costituzionali.

Questa ostinazione potrà sembrare inusuale per la tradizione occidentale, che si è sempre fatta vanto di garantire il diritto alla protesta pacifica e delle capacità di mediazione del suo sistema liberal democratico, e ancora di più in un Paese modello come il Canada. Ma se la guardiamo dalla prospettiva del nuovo stile di governance degli “esperti”, è chiaro che il pattern ritorna.

La pandemia del Covid-19 è l’incubatore perfetto per il nuovo modello, perché espone chiunque contesti le misure anti-Covid dei governi alla facile accusa di ignoranza scientifica e di insensibilità verso i decessi. Ma è chiaro a chi voglia osservare che lo stesso stile di governance sta venendo applicato a molti altri progetti trasformativi in questo momento in voga nei governi occidentali: la transizione ecologica, il Build Back Better, la digitalizzazione, la parità di genere e la ricodificazione della cultura occidentale a mezzo delle Critical Theories.

In ciascun caso ci viene detto che è necessario, inevitabile, che il governo ha un piano, e che solo i bigotti e gli ignoranti si possono verosimilmente opporre, e che ogni forma di dissenso equivale a sabotaggio.

Viene quindi da chiedersi, Joe Rogan è sotto attacco solo perché “disinforma” sul Covid, o perché insiste nel parlare di tutto quanto solletica la sua curiosità, senza riguardo alcuno ai desiderata del governo e degli “esperti”?

I suoi ospiti problematici sono solo i dottori McCullough e Malone, oppure tutti gli altri ospiti che Rogan, d’accordo o no che sia con le loro posizione, insiste a invitare al suo podcast per parlare in libertà? Gli ambientalisti contrari al Green New Deal come Michael Shellenberger, i critici della Critical Race Theory come James Lindsay, i transgender contrari alla Gender Theory come Blaire White, i giornalisti ribelli come Tim Pool, Matt Taibbi, Glenn Greenwald, i comici politically uncorrect come Dave Chapelle. Nessuno sembra mai lamentarsi degli ospiti normalmente benvenuti anche alla Cnn, che pure al Joe Rogan Experience sono tutt’altro che rari.

È abbastanza chiaro a questo punto che la cosa va oltre il dibattito sulle misure Covid. Ci sono due fronti: da una parte i media tradizionali, favoriti da governi e burocrazie statali, e dall’altra quelli alternativi, difesi da malcontenti e dissidenti. Joe Rogan si ritrova suo malgrado ad essere un simbolo di successo e indipendenza per i secondi, e un trofeo da attaccare al muro per i primi.

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it
la grande bugia verde