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La Cina nel Consiglio Diritti umani dell’Onu. No, non è satira…

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Detto così sembrerebbe una delle tante fake news che spopolano nei media e nei social network. La Repubblica Popolare Cinese ottiene un seggio nel “Consiglio dei diritti umani” dell’Onu, secondo quanto ha deciso a maggioranza l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Non si tratta tuttavia di una fake news né di uno scherzo dovuto a qualche burlone. È proprio così. Tra l’altro, la Cina ha superato, nel corso di una votazione assai combattuta, l’Arabia Saudita. Gli arabi hanno perso perché molti dei votanti hanno fatto loro pesare l’assassinio del dissidente Jamal Khashoggi, avvenuto due anni orsono nel consolato saudita di Istanbul.

Ora, verrebbe da dire che vi sono ben altri motivi, ancor più gravi, per impedire all’Arabia Saudita di far parte del suddetto Consiglio. Basti pensare alla condizione femminile in quel Paese e alla totale assenza di dialettica democratica che lo caratterizza.

L’approvazione della candidatura cinese, tuttavia, è un vero e proprio pugno nello stomaco per tutti coloro che alla tutela dei diritti umani credono realmente, pur rendendosi conto che l’argomento è quasi sempre trattato in modo eccessivamente retorico.

In realtà, se c’è al mondo una nazione in cui i diritti umani vengono calpestati quotidianamente, questa è proprio la Repubblica Popolare. Caso notissimo è quello di Hong Kong, giacché nella ex colonia britannica Pechino sta praticando senza remore una politica di assimilazione totale. Calpestando l’opinione contraria della stragrande maggioranza dei cittadini e tradendo l’accordo firmato con il Regno Unito nel 1997.

Altrettanto celebre è la situazione dello Xinjiang, regione nominalmente autonoma abitata dagli uiguri musulmani. Proprio per il fatto di essere islamici, gli uiguri godono di notevole appoggio in Occidente, appoggio che invece viene accordato solo in minima parte alla minoranza cristiana, oggetto di una trattativa per nulla trasparente tra Pechino e il Vaticano.

E che dire del Tibet, conquistato militarmente dall’esercito di Mao Zedong nel lontano 1950? La Cina lo considera parte integrante del suo territorio anche se questa vasta regione ha lingua, storia e tradizioni del tutto diversi. I diritti umani dei tibetani, per Pechino, non esistono, e anche qui l’assimilazione procede da decenni a tutto spiano.

Ultimamente tocca ai mongoli subire aggressive procedure di assimilazione e di sradicamento linguistico. Proibito, per esempio, celebrare Gengis Khan, fondatore di un immenso impero che riuscì in pratica ad assoggettare tutta l’odierna Cina. Nella Mongolia interna, altra repubblica autonoma cinese, ai mongoli viene imposto di sostituire la loro lingua con il mandarino. Alla mannaia di Pechino sfuggono soltanto i loro confratelli della Repubblica di Mongolia, Stato indipendente e da sempre vicino politicamente alla Russia.

Lecito chiedersi, a questo punto, che cosa faranno i rappresentanti cinesi appena eletti nel “Consiglio dei diritti umani” dell’Onu. Si tratta, ovviamente, di una domanda retorica. Sfrutteranno il “regalo” ricevuto per giustificare ufficialmente la loro politica di repressione – spesso violenta – dei diritti umani in tutti i territori sotto la loro giurisdizione. E ne approfitteranno, certamente, per mettere in discussione la concezione dei diritti umani dell’Occidente.

Diventerà ancora più difficile parlare delle vittime, dei campi di concentramento (i famigerati Laogai, termine che significa “Riforma attraverso il lavoro”), delle politiche di eradicazione linguistica e culturale.

Come dare torto, dunque, agli Stati Uniti che – in particolare con la presidenza Trump – hanno proceduto a tagliare i fondi a numerose agenzie dell’Onu? E a cosa serve una organizzazione delle Nazioni Unite conciata così? La sua credibilità, già gravemente compromessa, subisce con questo episodio un colpo mortale.