Questi ormai quasi due anni di emergenza Covid hanno, purtroppo, condotto ad una modifica sostanziale degli equilibri di forza tra società civile e Stato, a favore del secondo – uno scivolamento verso un’era tecnocratica che lascia alle spalle molti dei princìpi di libertà sostanziale che avevano caratterizzano finora l’idea occidentale di democrazia.
Si tratta di una tendenza che riguarda tutto l’Occidente e sicuramente avviatasi prima della pandemia, ma che senza dubbio ha visto una notevole accelerazione nella fase “emergenziale” cominciata nel 2020. E’ una tendenza di cui il nostro Paese è per molti versi guida e apripista, dato che ormai da molti anni non vive più una dinamica di alternanza democratica che sia vera emanazione del voto popolare. Da noi più che altrove ormai da anni prevale la visione che non si debba “disturbare il manovratore” e che ogni tentativo di riportare il consenso democratico nell’equazione del governo debba essere liquidato come populismo.
La “finestra di Overton” delle posizioni ammesse sembra ormai restringersi sempre di più. E’ particolarmente evidente sul tema del coronavirus come qualunque visione diversa rispetto a quella del governo scateni immediatamente dinamiche coordinate di assassination da parte dell’opinion-making, un misto di ridicolizzazione, ostrascismo e disprezzo – anche quando sia pienamente pragmatica e in linea con le scelte di policy di altri Paesi europei.
Quello che appare significato è che a molti dei princìpi della, sia pur imperfetta, Costituzione repubblicana viene ormai portato un omaggio puramente formale, o meglio “contestualizzato” alla sola eterna battaglia contro una dittatura di 80 anni fa e contro i suoi “presunti eredi”. A quanto pare, per il moderno mainstream, la carta costituzionale non veicolerebbe alcun messaggio più generale ed universale che possa consentire di difendere la libertà dei singoli in un contesto diverso da quello in cui è stata concepita, al punto che qualsiasi tentativo di appellarsi ad essa in relazione alle limitazioni delle libertà civili che stiamo vivendo in questa epoca viene sistematicamente additato come strumentale.
Così, il capo dello Stato Sergio Mattarella meno di tre anni fa poteva affermare che “la storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva”, senza poi però battere ciglio nel momento in cui la rinuncia ai princìpi fondamentali della libertà personale è passata dalla vaga enunciazione retorica alla realtà fattuale.
E’ notevole che in un lasso di tempo estremamente breve si siano riabilitati tutta una serie di concetti e di espressioni che fino a poco tempo fa sarebbero stati considerati moralmente ripugnanti. Per molti decenni la “cultura anti-fascista” aveva reso completamente estraneo al dibattito pubblico “rispettabile” qualsiasi riferimento linguistico e culturale anche vagamente equivocabile con l’era mussoliniana o con il nazionalismo italiano pre-fascista. Eppure oggi, senza che nessuno a sinistra si scomponga particolarmente, anzi in molti casi con il consenso dei “benpensanti”, sembra tutto un pullulare di novelli Bava Beccaris, novelli Cadorna e novelli Ciano.
Così ad esempio Marcello Sorgi, con assoluta nonchalance, può ventilare, dalla prima pagina de La Stampa, l’ipotesi di un “governo militare”.
Dal canto suo, il prefetto di Trieste può decretare che è tempo di “comprimere la libertà di manifestare”, usando proprio queste parole, senza alcun imbarazzo né freno inibitore. E il presidente di Confindustria Alto Adriatico può rincarare la dose affermando che in tempo di guerra i no-vax sarebbero dei disertori messi al muro e fucilati – a quanto pare ritenendo la fucilazione dei disertori uno degli esempi più fulgidi della storia italiana a cui potersi riferire.
E che dire dell’osannato ex premier Mario Monti, secondo il quale “bisogna trovare delle modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione”? Al di là dell’auspicio di una minore democrazia, dovrebbe spaventare anche il semplice fatto che si pensi che l’informazione sia qualcosa che deve essere “somministrato”.
Evidentemente abbiamo un problema se si è arrivati a “normalizzare” dei concetti e delle espressioni che non solamente in passato avrebbero generato unanime sdegno e condanna, ma che molto probabilmente già in partenza ci si sarebbe vergognati ad esprimere.
Se siamo arrivati a questo punto, certamente, non è solo per le manovre di alcune élites, ma perché, purtroppo, la società civile sembra sempre più indifferente ai principi della libertà occidentale.
E’ molto indicativo che, secondo un’indagine Censis di un anno fa il 57,8 per cento della popolazione ritenga giusto che si rinunci a fondamentali diritti costituzionali in nome della salute collettiva e che il 38,5 per cento lo ritenga giusto anche in nome di obiettivi di efficienza economica. Quello che, per molti versi, spaventa è che questi numeri siano ancora più alti tra i giovani; il 64,7 per cento di coloro con un’età compresa tra i 18 e i 34 anni è pronto a rinunciare alla libertà a favore della pianificazione sanitaria e il 44,6 per cento anche a fronte della pianificazione economica.
Insomma, persa memoria ormai dei grandi totalitarismi del ventesimo secolo, la comprensione dei valori e dei princìpi della democrazia occidentale, per molte ragioni, appare sempre più in crisi. La maggior parte delle persone non sente quasi più nulla per i grandi ideali mobilitanti che hanno fondato il modello di libertà politica al quale eravamo abituati. Accade certamente per una serie di ragioni che vanno dalla possibilità di dare per scontati assetti istituzionali che invece sono stati una conquista per le generazioni precedenti, fino alla stagnazione economica che ha reso meno evidente, rispetto ad alcuni decenni fa, il nesso tra libertà occidentale e benessere.
In queste condizioni si crea un generale clima di apatia e di ignavia, che paradossalmente dà mano libera proprio a quelle élites politiche che sono state responsabili, con le loro politiche stataliste fallimentari, della perdita di attrattività della “democrazia occidentale”. E’ così che diviene particolarmente appetibile il concetto di governi “tecnocratici” e di “salute pubblica” che, senza bisogno di qualsiasi vera legittimazione popolare tradizionale, facciano semplicemente “funzionare le cose”, riducendo il più possibile il “rumore di sottofondo” del dibattito democratico.
E’ il trionfo della dimensione asettica e a-morale dell’”efficientismo” contro gli “spiriti animali” e l’imprevedibilità della classica competizione politica. E’ il trionfo della presunzione che un Paese possa essere governato da una pianificazione illuminata scientifica, razionale e oggettiva, al punto che qualsiasi opposizione ad essa possa essere fatta apparire illogica quando non ontologicamente abietta. Una volta che si entra in tale prospettiva tutto diventa lecito, anche meccanismi di controllo e addomesticamento del dibattito pubblico che mai si sarebbero ritenuti pensabili in un Paese occidentale.
Le dinamiche politiche del nostro Paese sono sempre più lontane dai modelli storici della democrazia europea e nordamericana e sempre più vicini a logiche che, in molti sensi, appaiono di tipo “cinese”.
Stiamo assistendo ad un “cinesizzazione” della politica italiana, cioè all’emergere di un potere a-democratico, non contendibile e non accountable, unica possibile espressione di efficienza, di competenza, di progresso razionale e di coesione civica, che solo un “pazzo” o un “nemico della società” potrebbe voler sfidare.
E’ una prospettiva che fa paura. La grande questione del prossimo futuro sarà, quindi, come provare a risvegliare nel Paese la consapevolezza dei valori democratici a cui si sta rinunciando in cambio di quel’”ordine” e di quella “tutela” di cui un tempo parlava Mattarella.