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La Corte Suprema ferma Johnson: il popolo è la sua ultima arma per provare a salvare Brexit

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Sospesa la sospensione, il Parlamento può riunirsi. Lo scontro, duro, inedito per la politica britannica, pone di fronte chi vuole dar seguito al voto referendario e chi invece ritiene che l’ultima parola spetti al Parlamento, anche se contrasta del tutto o in parte con la volontà popolare. Esultano i Remainer, Corbyn chiede le dimissioni del primo ministro, ma non offre una chiara alternativa. E il sentimento popolare potrebbe rivelarsi l’arma finale per Boris: ho bisogno di voi, del vostro consenso, perché io voglio Brexit, gli altri no

Una sentenza storica e politica, nel senso che finirà inevitabilmente per influenzare gli sviluppi della più grande matassa che la storia parlamentare britannica contemporanea abbia conosciuto. La Corte Suprema di Londra ha infatti stabilito che la decisione del primo ministro Boris Johnson di sospendere l’attività parlamentare non fosse legale e non poggiasse su validi motivi e, dunque, che i Comuni tornino a riunirsi e discutere, anche e soprattutto di Brexit. La battaglia giudiziaria era cominciata agli inizi di settembre e tra i protagonisti ha visto in prima fila l’imprenditrice e filantropa Gina Miller, che già nel 2016 aveva sollevato davanti alla Corte la questione sul ruolo del Parlamento nelle trattative con l’Unione europea: i giudici nell’occasione stabilirono che il governo, allora guidato da Theresa May, non potesse fare a meno di passare al vaglio di Westminster durante le diverse fasi di un divorzio che si fa sempre più ingarbugliato. La stessa Miller, raggiunta dai giornalisti, ha festeggiato l’ultima sentenza e aggiunto che a questo punto Johnson dovrebbe dimettersi.

La stessa richiesta sollevata dal leader laburista Jeremy Corbyn, che ha appreso la notizia mentre si apprestava a salire sul palco a Brighton per la conferenza annuale del partito, dopo le polemiche suscitate dalla sua ambigua strategia sull’uscita dall’Ue, con i sindacati che chiedevano a gran voce che il partito diventasse la voce del Remain, senza ottenere una chiara risposta da Corbyn, che invece ha aperto all’ipotesi di elezioni anticipate, senza indicare però quando. Presumibilmente dopo il 31 ottobre, la nuova deadline per Brexit, che in caso di un mancato accordo tra le parti non verrebbe rispettata, vista la vittoria ottenuta dalla proposta di legge presentata dal deputato Hilary Benn, che stabilisce come di fronte allo scenario no deal l’Esecutivo si trovi obbligato a chiedere l’ennesima proroga. Vittoria ottenuta a poche ore proprio dalla sospensione del Parlamento. Voci di corridoio informano inoltre che i Liberaldemocratici sarebbero pronti a sostenere una mozione di sfiducia nei confronti di Johnson, senza però mostrarsi disponibili ad una coalizione con Corbyn. Il che porterebbe alle urne, sempre che non ne nasca un compromesso tra Labour e Scottish National Party, apertamente anti Brexit.

Secondo i sondaggi, se si votasse dopo il 31 ottobre ma senza Brexit, i Conservatori perderebbero il solido vantaggio di cui sono accreditati. Parte dei voti andrebbero al movimento anti-europeista di Nigel Farage, che altrimenti sarebbe destinato a sgonfiarsi. Ma il condizionale, in una situazione confusa come questa, è più che mai d’obbligo: ora c’è di mezzo una sentenza arrivata da un ramo “non rappresentativo” dello Stato e in un clima in cui le posizioni sono ben chiare – chi ritiene che sia doveroso dare seguito alla volontà popolare espressa con il referendum di tre anni fa e chi, invece, ribadisce la centralità del Parlamento, a costo anche di ridimensionare tale espressione – la variante del sentimento degli elettori è più che mai decisiva. Se infatti Johnson fosse in grado di marcare il territorio, presentandosi come un primo ministro sfiduciato da chi vuole tradire il risultato referendario senza risponderne direttamente agli elettori stessi, allora potrebbe rimettere la testa avanti e riprendere da dove era stato interrotto.

Certo, gli occorrerebbe un tassello in più: un partito unito alle sue spalle. Perché se i Laburisti sono dilaniati da uno scontro interno tra europeisti ed euroscettici, ancor di più lo sono i Conservatori. L’anima Remain non è disposta ad accettare i diktat di Johnson e del suo entourage (primo fra tutti il consigliere Dominic Cummings, artefice della campagna del Leave): le espulsioni delle scorse settimane hanno reso le ferite sempre più profonde, mentre con la ripresa dei lavori parlamentari le defezioni sono dietro l’angolo e finirebbero per assottigliare ulteriormente una truppa che non può contare su una vera maggioranza. Nonostante tutto ciò, nonostante un caos quotidiano, i Tories sono attualmente davanti nelle intenzioni di voto. Dovesse sopravvivere ai lunghi coltelli conservatori – noti per non aver mai fatto sconti a nessuno – allora Johnson avrebbe le spalle abbastanza larghe per trovare un po’ di spazio di manovra, quel tanto che basta per ripresentarsi a Downing Street come portavoce del sentimento popolare che ha chiesto e crede in Brexit. L’ultimo tentativo di darle un senso prima che svanisca per logoramento.