Poco prima di chiudere i battenti per la pausa estiva, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato a Trump e alla sua base due buoni motivi per festeggiare.
Innanzitutto, martedì scorso, nel caso National Institute of Family and Life Advocates c. Becerra, la Corte ha dichiarato incostituzionale una legge dello Stato della California che imponeva a tutti gli enti privati di servizi medico-sanitari pre-natali (in genere, di ispirazione cristiana) di comunicare ai propri clienti che lo Stato riserva loro l’accesso al sistema pubblico di “salute riproduttiva”, contraccezione e aborto compresi. In pratica, se una donna si rivolgeva ad un consultorio per non abortire, doveva essere necessariamente informata, nel dettaglio, anche su come abortire; se il consultorio ometteva di dare queste informazioni, era soggetto a sanzioni pecuniarie. Ebbene, la Corte Suprema ha ritenuto incostituzionale questo obbligo informativo imposto dalla legge californiana. Apriti cielo. Gli attivisti pro aborto si sono scatenati, affermando che la Corte ha sostanzialmente ritenuto costituzionalmente legittimo “mentire” alle donne che si trovano a dover gestire una gravidanza indesiderata. In realtà, la Corte ha detto qualcosa di ben diverso, ovvero che il Primo Emendamento della Costituzione federale non protegge solo la libertà di parola, ma impedisce anche allo Stato di costringere i privati cittadini a propagandare un messaggio (nel caso di specie, pro aborto) contrario alle loro convinzioni. Basta pensarci un attimo, e ci si rende conto che si tratta di un elementare principio di libertà. Per Trump, molto vicino alla base pro vita – lo scorso gennaio, è stato il primo presidente in carica a partecipare all’annuale Marcia per la Vita – si tratta, dal punto di vista politico, di una vittoria indiretta ma importante.
Tutti i riflettori, però, sono puntati sull’altra sentenza con cui la Corte Suprema, sempre martedì scorso, ha ritenuto costituzionalmente legittimo il c.d. “travel ban” (o “Muslim ban” per i suoi oppositori), ovvero l’ordine esecutivo presidenziale che limita l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di Iran, Libia, Corea del Nord, Siria, Venezuela, Yemen e Somalia (i limiti per i cittadini del Ciad sono stati eliminati il 30 aprile), in quanto Stati che, secondo la Casa Bianca, gestiscono o condividono in maniera inadeguata le informazioni sui propri cittadini, o che destano preoccupazioni per la sicurezza nazionale Usa. In effetti, si tratta della terza versione di un provvedimento di Trump, che in origine, più drastico per contenuti e modalità di applicazione, includeva anche Iraq e Sudan e non riguardava Corea del Nord e Venezuela.
Tale provvedimento ha dato origine ad una battaglia giudiziaria al calor bianco, in cui non è mancato quasi nulla: dal licenziamento dell’Attorney General (l’equivalente del ministro della giustizia) pro tempore, Sally Yates, per insubordinazione perché aveva dichiarato la sua opposizione al provvedimento; ai ripetuti stop all’ordine esecutivo pronunciati da giudici federali di grado inferiore. Il caso è arrivato fino alla Corte Suprema, che si è così trovata a dover decidere su due importanti questioni giuridiche. La prima riguardava i poteri del presidente in base all’Immigration and Nationality Act del 1952. La seconda verteva sulla tesi secondo cui il provvedimento era viziato da pregiudizio anti-islamico. Ebbene, secondo la Corte Suprema, Trump ha agito all’interno dei limiti posti dalla legge, che, del resto, per come è scritta (e non l’ha scritta Trump, ma il Congresso più di sessant’anni fa), “trasuda” (exudes), in ogni sua disposizione, deferenza rispetto ai poteri del presidente. La Corte ha sottolineato che gli Stati in questione erano già stati individuati come minacce alla sicurezza nazionale – ben prima di Trump – dal Congresso o anche da precedenti amministrazioni. E ha sottolineato che la tesi secondo cui il presidente non avrebbe il potere di limitare gli ingressi sulla base della nazionalità è semplicemente insostenibile, perché condurrebbe all’assurdo di non consentire l’imposizione di limiti agli ingressi di cittadini di Stati colpiti – per esempio – da epidemie, o addirittura in guerra con gli Stati Uniti. Cosa evidentemente non possibile.
La decisione della Corte, presa a stretta maggioranza (5-4), ha mandato il Partito Democratico su tutte le furie, e rappresenta un’indubbia vittoria per Trump. Giuridica e mediatica. Sul piano giuridico, perché si tratta di una riaffermazione delle prerogative presidenziali in materia di immigrazione e sicurezza nazionale. Sul piano mediatico, perché etichettando il provvedimento in questione come “Muslim ban”, i suoi oppositori più estremisti sono caduti nella trappola propagandistica del presidente; e continuano a cadervi quando ora accusano la Corte di aver rispolverato le pagine più oscure della propria storia – che in effetti non mancano – come le sentenze che ritennero legittime la schiavitù (Dred Scott, 1857), o i campi di concentramento per i residenti o cittadini americani di origine giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale (Korematsu, 1944). In effetti, si tratta di critiche tanto rumorose quanto sterili ed immotivate. Il perché è presto detto. Innanzitutto, i numeri parlano chiaro: molti Stati a predominanza musulmana non sono stati toccati dal provvedimento, e Corea del Nord e Venezuela non possono essere certamente ritenuti bersaglio di pregiudizio anti-islamico. Per altro verso, dal punto di vista politico, si tratta di una battaglia inutile: la base di Trump – che è quella che lo ha portato alla Casa Bianca, che è la principale destinataria di tutta la sua agenda, e che ha un ruolo decisivo dal punto di vista elettorale fintantoché il Partito Repubblicano resta così spaccato – non lo abbandonerà mai per aver adottato provvedimenti, per quanto rozzi o eccessivi, il cui scopo sia la tutela della sicurezza nazionale.
I Democratici che non vogliono attaccare direttamente la Corte, invece, utilizzano un argomento solo apparentemente più raffinato, ed affermano che quello di oggi è il risultato dell’ostruzionismo repubblicano durante l’ultimo scorcio della presidenza Obama, che, dopo l’improvvisa morte del giudice Scalia, impedì la conferma di un giudice di orientamento democratico, Merrick Garland, e lasciò “in dote” a Trump la possibilità di reintegrare il plenum della Corte Suprema con un conservatore a tutto tondo, Neil Gorsuch. Ma si tratta di un argomento su cui i Democratici di oggi sono poco credibili, visto che, a propria volta, si stanno superando nell’arte dell’ostruzionismo per rallentare il più possibile le nomine, giudiziarie e non, di Trump.
Le reazioni dei Democratici, nelle loro varie gradazioni, tradiscono in realtà una disperazione ai limiti dell’isteria. Nel caso più politicamente delicato dell’anno, la maggioranza conservatrice della Corte Suprema ha retto. Anche il giudice conservatore più moderato, Anthony Kennedy, ha votato a favore del provvedimento di Trump, anche se ha preferito presentare un’opinione separata, ma concorrente nel voto, in cui ha tirato le orecchie al presidente per i toni e i modi delle sue esternazioni. Il punto è che dopo l’estate, oltre a Kennedy, altri due giudici della Corte Suprema avranno più di 80 anni. Un quarto, Clarence Thomas, ha compiuto 70 anni la settimana scorsa. Come abbiamo già segnalato su queste colonne, se anche uno solo si ritirasse a breve, Trump avrebbe la possibilità di sostituirlo con un giudice relativamente giovane e, soprattutto, conservatore doc, determinando così a favore dei Repubblicani gli equilibri della Corte Suprema forse per decenni.
È evidente, dunque, che, in un sistema in cui le nomine presidenziali sono soggette alla conferma del Senato, le elezioni di novembre, quando sarà rinnovato un terzo del Congresso, diventano sempre più cruciali. I Democratici sperano di riacciuffare la maggioranza, confidando nella statistica secondo cui il partito del presidente, di solito, registra un risultato negativo in tale passaggio elettorale intermedio. Ma le elezioni primarie che si sono svolte sempre martedì non consentono ai Democratici di essere ottimisti. Mentre i candidati appoggiati da Trump hanno vinto, un pezzo grosso dell’establishment del Partito Democratico, il rappresentante del 14mo distretto di New York, Joe Crowley, che, se tutte le congiunzioni astrali si fossero avverate, era in corsa per diventare, dopo novembre, Speaker (l’equivalente del presidente) della Camera dei Rappresentanti, è stato sconfitto in maniera tanto scioccante quanto imprevista da una giovane attivista di ultrasinistra, e già nuova eroina dei radical chic, Alexandria Ocasio-Ortez. Per cui, mentre Trump vince alla Corte Suprema e non solo, il Partito Democratico perde per strada i pezzi da novanta.
Ad un livello più generale, la vicenda del c.d. “travel ban” dimostra che le istituzioni Usa, con il loro raffinato e forse irripetibile sistema di pesi e contrappesi, funzionano. E resistono anche agli scossoni causati da un personaggio scomodo come Trump. I limiti posti dalla legislazione e la struttura della giurisdizione federale hanno costretto Trump a cambiare il suo controverso provvedimento ben due volte, fino a riscriverlo in modo da renderlo conforme a principi sostanzialmente consolidati nella giurisprudenza della Corte Suprema. Su questo argomento, dunque, il sistema ha gestito e moderato le istanze più estremiste del trumpismo, dimostrando tutta la sua solidità. La democrazia americana non è in pericolo, come qualcuno vorrebbe sostenere. O se lo è, non è per colpa di Trump, ma di un Partito Democratico che, dopo la traumatica sconfitta alle presidenziali del 2016, deve ancora trovare il bandolo della matassa e non riesce ad esercitare quel ruolo di opposizione matura che è essenziale in una democrazia evoluta.