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La crisi americana: più volte annunciata, è più apparente che reale. Ecco perché

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Va di moda, oggi, sostenere che l’America è in crisi. Eravamo abituati a vedere una superpotenza globale che esercitava senza remore la sua leadership, spesso ricorrendo all’enorme potenza militare.

Senza dubbio il quadro complessivo era più semplice quando gli Stati Uniti dovevano fronteggiare un nemico certo ma, tutto sommato, prevedibile come la defunta Unione Sovietica. Anche perché, allora, lo scontro aveva una forte connotazione ideologica che facilitava la divisione in blocchi contrapposti.

Ai giorni nostri i nemici sono più d’uno e spesso non è facile identificarli come tali con sufficiente chiarezza. Non solo. La Cina è diventata indubbiamente nemica, ma occorre pur tener conto dell’intreccio economico e commerciale che unisce – lo vogliano o meno – Washington e Pechino. E proprio per questo Donald Trump insiste molto sul decoupling (disaccoppiamento) delle due economie.

Lo stesso discorso, pur con notevoli differenze, vale per il frastagliatissimo mondo islamico, dove l’odio atavico tra sunniti e sciiti causa tra l’altro notevoli problemi quando si tratta di decidere chi scegliere nel sistema delle alleanze.

Credo però sia opportuno rilevare che la crisi americana è più apparente che reale. O se si preferisce, che si tratta di una crisi dovuta a fattori contingenti, la quale potrebbe essere superata con la fine della pandemia e la riconferma alla Casa Bianca di un presidente dotato di una strategia chiara sul piano della politica internazionale.

Mi spiego. Se si ha occasione di visitare Paesi come Cina e Vietnam che – almeno in teoria – basano il loro ordinamento politico e sociale su valori assai diversi da quelli americani, è facile notare nelle nuove generazioni la forte tendenza a considerare gli Usa come modello da imitare. Può sembrare incredibile, ma è proprio così. L’opinione delle classi dirigenti, in questi casi, conta assai meno dei comportamenti concreti che i giovani manifestano nella vita quotidiana, comportamenti che sono molto simili a quelli dei loro coetanei italiani, francesi e, ovviamente, americani.

Mao e Ho Chi Minh, pur ancora esaltati sul piano ufficiale, appaiono figure lontane, ormai avvolte dalla nebbia della storia. Più importanti, agli occhi dei ragazzi – ma anche dei trentenni – risulta la possibilità di viaggiare all’estero, di avere accesso ai social network, di essere in costante comunicazione con tutti mediante lo smartphone e, perché no?, di pranzare con frequenza nei fast food che si diffondono a macchia d’olio.

Tutto ciò implica una certa disponibilità di denaro, e a questo i governi autoritari provvedono per contenere entro certi limiti le tensioni sociali. L’immaginario collettivo giovanile nelle nazioni suddette è letteralmente impregnato di valori occidentali in genere e americani in particolare, con l’influenza della American way of life che si fa sentire con prepotenza nella programmazione televisiva, nell’abbigliamento standard e persino nell’istruzione universitaria, a dispetto di un marxismo-leninismo tuttora impartito su basi obbligatorie.

Aggiungo – e questo è ancor più sorprendente – che la stessa tendenza è percepibile pure nel mondo islamico, con punte assai elevate in Pakistan, Indonesia e in alcune repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Il fondamentalismo è senza dubbio importante ma, a ben guardare, s’impone solo mediante violenza e coercizione. Non si può escludere che, alla fine, esso venga sconfitto grazie alla resistenza passiva della maggioranza delle popolazioni.

Chiedo, allora, come possa essere considerato in crisi un Paese che nonostante tutto è riuscito a diffondere i suoi valori e il proprio stile di vita a livello globale. Forse, più che di crisi, è opportuno parlare di una pausa dovuta, come dicevo poc’anzi, a fattori contingenti. E, se è così, il “secolo americano” è destinato a protrarsi a lungo.