Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo di Carlo Zucchi
In sette elezioni presidenziali su otto, nell’arco di 28 anni, gli elettori democratici sono stati di più di quelli repubblicani. Parlare di tendenza di lungo periodo non sembra del tutto peregrino. Come mai questo predominio democratico ormai pluridecennale? Che quasi tutte le grandi città, non solo negli Usa ma in gran parte dell’Occidente, siano governate dalla sinistra denota la crisi dei partiti conservatori, perché è nelle grandi città che si “fabbricano” le narrazioni. E la destra, insegue…
Le elezioni americane si sono concluse e la figura degli Stati Uniti di fronte al mondo è stata davvero ignobile: chi da decenni si è fatto portabandiera della democrazia impegnandosi a esportarla in tutto il mondo, anche a suon di bombe, l’ha bistrattata come non sarebbe accaduto nemmeno nello Zimbabwe di Mugabe. Donald Trump farà i ricorsi che riterrà opportuno e chi sarà chiamato a decidere lo farà.
In attesa del responso finale, alcune cose si possono dire. Per esempio, il voto popolare è andato a Joe Biden, il che si presta a un’osservazione interessante. Dal 1968 al 1992, salvo i quattro anni sciagurati di Jimmy Carter (1976-1980), gli Stati Uniti hanno avuto presidenti repubblicani (Nixon, Ford, Reagan e George Bush Sr.), mentre dal 1992 al 2020 hanno vinto tre elezioni su sette (forse otto), due delle quali (2000 e 2016) sono state vinte nonostante il numero di voti popolari fosse più basso rispetto a quello del candidato democratico. Insomma, in sette elezioni su otto, nell’arco di 28 anni, gli elettori democratici sono stati di più di quelli repubblicani. Pertanto, parlare di tendenza di lungo periodo non sembra del tutto peregrino.
Allora, come mai questo predominio democratico ormai pluridecennale? Un dato interessante è quello relativo ai governi delle grandi città, quasi tutte in mano alla sinistra, non soltanto negli Stati Uniti, ma in gran parte dell’Occidente. Si prenda ad esempio il caso dell’Italia. L’attuale opposizione lamenta il fatto di non essere ascoltata nonostante governi 15 delle 20 regioni italiane. Ma tranne Genova e Venezia, sempre più marginali nelle vicende italiane, i capoluoghi di regione che contano li amministra la sinistra. E lo stesso accade negli Stati Uniti, ma anche a Londra, Parigi, Berlino, Monaco, Amburgo, Barcellona, Bruxelles, Amsterdam, Dublino, Stoccolma, mentre la sola Madrid ha un sindaco del Partito Popolare. Questo aspetto denota la crisi dei partiti conservatori, perché è nelle grandi città che si “fabbricano” le narrazioni, si decide l’agenda culturale, ossia le questioni da lanciare in pasto all’opinione pubblica sulle quali la politica dovrà discutere e agire. In certi casi, perfino chi può parlare e chi no. E se non tocchi palla nelle grandi città, puoi anche vincere le elezioni politiche nazionali, ma è come se fossi comunque all’opposizione.
Tornando agli Stati Uniti, è probabile che senza il Covid Trump sarebbe stato confermato presidente sia perché l’economia stava andando bene sia perché anche il Partito Democratico non scoppia di salute. Ma quel che a Trump è mancato in questi quattro anni, e ai Repubblicani da molto più tempo, è una narrazione propria che vada oltre una mera opposizione a quella altrui. Narrazione che i Repubblicani negli anni Sessanta riuscirono a riempire di valori propri contro quella impregnata di contro-cultura, della quale gli americani si stancarono presto, come dimostra il trend elettorale dal 1968 al 1992. L’universo culturale conservatore seppe intercettare lo spirito libertario del tempo smussandone gli eccessi libertini e allentando i freni fiscali e burocratici in economia, operando così la giusta sintesi fra destra economica liberista e destra conservatrice religiosa. I repubblicani sostenevano chi nei propri garage dava vita ad attività tecnologicamente avanzate, mentre oggi lasciano agli avversari il frutto di quel lavoro e di quei principi. Allora si battevano contro lo stato e la sua pervasività, oggi ne difendono le sue scarne vestigia proprio nel momento in cui (e forse proprio perché) la sinistra lo scarica non ritenendolo più strumento idoneo alle sue mire di controllo sociale, politico e culturale.
Oggi, vinta la sfida sull’economia e sconfitto l’impero del male sovietico, i Repubblicani, come il resto dei conservatori occidentali, non sanno che pesci prendere di fronte alla sfida lanciata dalla sinistra non soltanto sui temi dell’ecologia e dei diritti civili, ma anche sull’innovazione tecnologica. Nella narrazione della nuova sinistra la difesa della natura passa inesorabilmente attraverso la condanna dell’industria, che oggi può anche permettersi di “sfruttare” gli operai, ma non l’ambiente. Ebbene, a questa narrazione truffaldina si può contrapporre l’ecologia di mercato, che dimostra come il libero scambio, rispettoso dei diritti di proprietà di imprese e persone, sia il sistema più efficiente per preservare l’ambiente, perché sprecare risorse equivale ad aumentare i costi per le imprese, come dimostrano Guglielmo Piombini e Carlo Lottieri nel libro “Privatizziamo il chiaro di luna”, un vero capolavoro che condensa tutto quanto c’è da sapere sull’ecologia di mercato in poche pagine di agile lettura anche per il lettore più a digiuno di questi temi. Invece, oggi le organizzazioni confindustriali non trovano di meglio che accodarsi a narrazioni ecologicamente corrette come l’economia circolare.
Ma quel che è peggio, è che l’universo conservatore, politico e culturale, sta perdendo la sfida posta dall’innovazione tecnologica. A differenza di Ronald Reagan che intercettò i voti della parte del Paese più intraprendente e dinamica, Trump strizza l’occhio a quella parte d’America che sta giocando “in difesa”, offrendole uno scoglio a cui aggrapparsi più che una speranza per il futuro. Finanza, informatica e comunicazione sono ambiti in cui è fondamentale la capacità di astrazione, caratteristica degli intellettuali di professione, da sempre più vicini alla sinistra. Certo, non si può vivere di sola astrazione, ma anche il mondo “solido” dei manufatti e delle lamiere non può fare a meno dei progressi fatti nel mondo dell’information technology, senza i quali non potrebbe né innovare i prodotti, né efficientare i processi produttivi, unica via, questa, per poter far ritornare sul suolo americano ed europeo almeno alcune delle produzioni da tempo delocalizzate all’estero, soprattutto in Asia orientale. Pertanto, non è un caso che le aree più innovative del pianeta come la Silicon Valley o la zona delle università più prestigiose della East Coast americana siano roccaforti progressiste non tanto per snobismo, ma perché dall’altra parte faticano a trovare interlocutori. E l’high tech, che negli anni Ottanta costituiva il 10 per cento del valore aggiunto dell’economia mondiale, oggi conta più del 25 per cento e i progressi in tale campo impattano in maniera rilevante sul settore della comunicazione, dominato dai progressisti. E quel che vale per l’high tech, vale anche per la finanza, anch’essa bersagliata un po’ ovunque dalla destra sovranista con critiche spesso generiche e grossolane, tipiche di chi non ne conosce i meccanismi, e ritenuta a torto contrapposta a chi sgobba e fatica producendo nell’economia “reale”.
Come negli anni Sessanta i conservatori devono iniziare a ritrovare sintonia con il mondo e opporsi a un disegno egemonico globale che la sinistra sta portando avanti, stante il suo solito vizio di voler dirigere la vita delle persone, in virtù della loro presunzione di sapere cosa è meglio per gli altri. Ma politici e intellettuali di sinistra hanno compreso che tutto ciò può essere meglio realizzato controllando non più gli apparati statali, che con la globalizzazione hanno diminuito il loro potere d’influenza, ma i mezzi di comunicazione e i centri internazionali della finanza, attori globali per eccellenza. Oggi la sinistra usa il gergo del mercato, ma per meglio controllarlo, e usa la retorica dei diritti civili non per una sacrosanta difesa delle minoranze, ma per imporre al popolo di cui si proclama paladina i propri modelli di vita elitari e progressisti, arrivando a minacciare la galera anche per reati di opinione, come accade in Italia con la Legge Zan-Scalfarotto sull’omotransfobia, che prevede “la reclusione da sei mesi a quattro anni per chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi o fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Mette alla gogna le persone con accuse senza fondamento come ha fatto il movimento femminista MeToo con Kevin Spacey, legittima chi, come il Black Lives Matter, devasta i monumenti distorcendo la storia in senso anti-occidentale, attacca con la violenza del branco professori e intellettuali che dissentono e non si conformano al pensiero politicamente corretto. Ed è proprio per questo che la sinistra va combattuta con strumenti che vadano oltre qualche tweet improvvisato e talvolta sconclusionato. Nella speranza che, nel frattempo, ricorsi e riconteggi facciano il miracolo.