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La deriva anti-parlamentare del Conte 2 e le riforme solo per azzoppare il centrodestra

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1. Secondo una celeberrima battuta attribuita al mefistofelico Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca. Alla ovvia domanda del perché tutta l’intellighenzia e la stampa progressista si siano ben guardate dal battere un colpo quando la riduzione del numero dei parlamentari era in itinere alla Camera, ma si siano svegliate solo quando il referendum confermativo è stato richiesto da una esecrata pattuglia di leghisti e forzisti, mi viene alla bocca una risposta maliziosa. Allora, c’era da salvare la maggioranza di governo, 5 Stelle e Pd, dalla terrificante prospettiva di una consultazione elettorale anticipata, destinata a vedere vincente la destra populista, razzista, omofoba – e chi più ne ha più ne metta – capace di modificare la Costituzione in chiave autoritaria; ora, dato che la convivenza fra 5 Stelle e Pd sembra condannata a restare salda per tutta la legislatura, se pur da separati in casa, costoro possono permettersi il lusso di fare le “anime belle”, votando “no”, sol perché strasicuri che vincerà il “sì”.

La bandiera fatta sventolare è quella di una deriva antiparlamentare che parla alla pancia del popolo, che, secondo la bisogna, viene mitizzato o demonizzato. Solo che questa deriva ha avuto un protagonista eccellente proprio nel Conte 2, secondo un giudizio concorde di molti addetti ai lavori; basti qui citare un passo dell’articolo di Sabino Cassese, “L’attività e l’efficacia del nostro Parlamento”, pubblicato sul Corriere della Sera del 2 settembre:

“Il Comitato per la Legislazione della Camera ha lamentato l’attribuzione di un ‘improprio’ potere normativo e regolamentare ai decreti del presidente del Consiglio dei ministri. Ha criticato il modo in cui il Governo ‘gioca’ con i decreti-legge, ad esempio abrogando le norme di altri decreti-legge in sede di conversione, o inserendo nella legge di conversione proroga in blocco dei termini di deleghe in scadenza; oppure trascinando tutte le deroghe alla legislazione vigente con la proroga dell’emergenza”.

Per non parlare dell’uso e abuso del ricorso alla fiducia, per il quale l’ultima ciliegina sulla torta è quella data dall’inserimento in un decreto-legge, dedicato al Covid-19, di una proroga per i vertici dei servizi segreti, voluta fortemente da Conte, che ne aveva mantenuto la delega se pur non senza contrasti; a fronte di un emendamento soppressivo, proposto da 50 deputati 5 Stelle, Conte ha imposto la fiducia sulla legge di conversione, con il blocco automatico di quell’emendamento.

2. A dire il vero, l’armata dei sostenitori del “no” è tutt’altro che omogenea, guidata dai pochi e puri che sostengono che la Costituzione italiana non deve essere toccata, dimenticandosi della correzione del Titolo V, del 2001, sulla autonomia regionale, passato dal governo Amato a strettissima maggioranza, oggi iper-criticato per aver compromesso il coordinamento nazionale a fronte della pandemia Covid-19. Di contro ci sono quelli, un tantino più smaliziati all’insegna del “benaltrismo”, i quali ritengono che la Costituzione vada rivoltata in blocco, cominciando dal superamento del bicameralismo perfetto, facendo finta di ignorare che le riforme a tutto campo predisposte prima da Berlusconi, poi da Renzi, sono state bocciate dal corpo elettorale.

C’è, però, una linea di resistenza meno passionaria e più sofisticata, quella cioè per cui la riduzione era stata pensata all’interno di una sia pur minima cornice, che spacca lo stesso Pd: da un lato, c’è la posizione tenuta ferma da Zingaretti, costretto al “sì”, se pur ritardato fino ad un pugno di giorni prima del 20 settembre, per farne un’arma di pressione per ottenere almeno la legge elettorale, ma ora rassegnato a discuterne dopo il referendum; dall’altro, c’è la insurrezione di molti capi e capetti del partito, consapevoli che le assicurazioni dei 5 Stelle non bastano, perché i partitini sotto il 5 per cento, Italia Viva e Leu, sono poco affidabili.

Quale era la cornice in cui era stata pensata e concordata la riduzione dei parlamentari? C’erano alcune altre riforme costituzionali, come il superamento della base regionale del Senato, nonché l’equiparazione a 18 anni dell’elettorato attivo delle due Camere, tutte nel senso di un rafforzamento del criticato bicameralismo perfetto. Così, ancora, la riduzione del numero dei rappresentanti regionali per l’elezione del presidente della Repubblica, che contraddice quanto sostenuto a proposito di una legge elettorale che dovrebbe assicurare una rappresentanza parlamentare dotata di capacità rappresentativa delle regioni. Ma si sa, comunque vada la prossima consultazione, la larga maggioranza delle regioni saranno governate dal centrodestra; qui sta la ragione di tale ultima proposta.

3. Se si voleva, le riforme costituzionali potevano essere portate avanti insieme, mentre, per non appesantire il carico, si è ritenuto di processarle in seguito; niente di occulto, che si possa dire venuto alla luce solo all’ultimo minuto. Restano le due riforme pesanti, non costituzionali, cioè la revisione dei regolamenti parlamentari e la legge elettorale. Al che una prima riflessione critica, cioè quella di legare una modifica costituzionale, di una notevole rigidità, a correzioni rimesse alle maggioranze parlamentari, di una assoluta flessibilità, sì da poter essere sostituite da versioni completamente opposte da una legislatura all’altra. Non c’è alcuna strategia istituzionale, solo una tattica tesa a contrastare l’eventuale vittoria del centrodestra, con la speranza di imbrigliarla concedendole una maggioranza risicata e accrescendo la capacità della futuribile opposizione nelle due Camere da parte del centrosinistra.

Legare la riforma della legge elettorale in senso puramente proporzionale, con una soglia del 5 per cento abbassabile al 3, alla riduzione dei parlamentari, per recuperare una rappresentanza territoriale più equilibrata, è solo una giustificazione a posteriori. Comunque, riduzione o non riduzione, questa sarebbe stata la scelta di una coalizione all’affanno, la cui ragione di sopravvivenza apertamente confessata ad ogni occasione è di fermare una opposizione considerata antidemocratica. Quest’ultima è la bandiera agitata dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico da una sinistra dimentica della regola fondamentale della democrazia, per cui conta non solo l’esistenza, ma anche la riconosciuta legittimità dell’opposizione, la quale, a costo di smentire se stessa, non può essere costruita a piacere della maggioranza.

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