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La Lega evoca sia Thatcher che Berlinguer perché sta con chi produce e chi lavora

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Non c’è cosa migliore in politica che scatenare la rabbia degli avversari e, nello stesso tempo, sollevare un dibattito all’interno della propria fazione. Matteo Salvini c’è riuscito l’altro giorno quando, non senza polemiche, ha definito la sua Lega “erede del Pci di Enrico Berlinguer”.

Salvini lo ha fatto dall’alto di un partito che alle ultime elezioni europee ha ottenuto il 35 per cento dei voti e che tutti i sondaggi danno come primo partito in Italia nonostante la pandemia e le apparizioni continue in tv di Winston Conte. Il dovere del leader dell’opposizione è quindi quello di parlare a un numero più alto possibile di italiani per trasformarli in potenziali elettori di un partito – e di una coalizione – che ambisce a governare il Paese. Sono finiti i tempi in cui la Lega era ridotta nella sua riserva lombarda e totalizzava il 4-5 per cento dei consensi: oggi i Lumbard sono un più ampio movimento di livello nazionale, conservatore nei valori e appartenente alla famiglia politica del sovranismo internazionale.

Dalla fine della Prima Repubblica e dal crollo del Muro di Berlino la Lega ha intercettato i voti in libera uscita dai delusi del comunismo e degli operai che credevano nel Sol dell’Avvenire. Quando Salvini dice che i suoi valori sono quelli di Berlinguer fa riferimento a degli elettori che sono naturalmente conservatori dal punto di vista sociale, lavoratori e/o pensionati che non si ritrovano nelle nuova sinistra dei grandi centri urbani e dell’identity politics. Il successo della Lega nelle periferie si spiega anche con l’adesione del partito ai valori e alle ambizioni dei Forgotten Ones della globalizzazione e della concentrazione di potere nei centri delle grandi città.

Intendiamoci. L’eredità della politica di Berlinguer è irricevibile per chi si candida a guidare il Paese. L’austerity, l’eurocomunismo e l’aperto sostegno alle politiche inflazionistiche della “Scala Mobile” sono state rigettate dagli elettori e da tutti i partiti italiani, anche quelli che ora si offendono perché la Lega vuole ubicarsi in via delle Botteghe Oscure.

Salvini vuole una Lega su misura della working class e dei ceti produttivi, esattamente come Margaret Thatcher cercava il voto di quell’elettorato che più di tutti aveva sofferto gli effetti dell’Inverno dello Scontento del 1978 e l’inettitudine dei laburisti Callaghan e Wilson nel gestire la crisi economica che lo generò. Una larga fetta dell’elettorato della Lady di Ferro non proveniva di certo dai grandi proprietari terrieri dall’aristocrazia britannica ma da quegli inglesi che la votavano perché i Tories avevano promesso loro agevolazioni per comprare le case in cui vivevano. La stessa politica che sta attuando Johnson e che sta attuando la Regione Lombardia con il presidente Fontana e l’assessore Bolognini, declinandola in misure di contrasto alle occupazioni abusive e di sostegno alle famiglie lombarde.

Chi si chiede come si possa mettere insieme Thatcher e Berlinguer, non coglie il fatto che la Lega è ormai un partito di massa a vocazione maggioritaria, un contenitore che – seppure fortemente identitario e ancorato a destra – ha la necessità di ampliare il suo elettorato e parlare a tutta l’Italia che produce e che lavora. Solo il responso delle urne stabilirà se questo è il giusto passo per tornare al governo una volta che i prog-pop di Conte e Zingaretti avranno definitivamente fallito.