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La lenta agonia del diritto di proprietà in Italia: una sentenza troppo ambigua per salvarlo

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Un diritto vilipeso e violato, ma due vicende, senza facili o enormi entusiasmi, sembrano tradire la resistenza della proprietà…

Il diritto di proprietà in Italia non gode, e potremmo dire non ha mai goduto, di particolare buona salute. Resta solo da capire se sia giunto il momento di doverne constatare e dichiarare pubblicamente il definitivo decesso o se al contrario mantenerne una qualche timida fiammella di vita.

Aborrito, frainteso, vilipeso e violato, il diritto di proprietà, il terribile diritto evocato da Beccaria e ripreso da Rodotà con la medesima espressione a titolare la sua nota monografia, sembra rappresentare quasi un tetro passato di privilegi castali. D’altronde la stessa espressione ‘padrone di casa’ implica tutto il disvalore concettuale e culturale preludente una sorta di ctonia lotta di classe e una intrinseca asimmetria tra inquilino-vittima e locatore-carnefice.

In queste settimane però si sono affacciate a punteggiare le cronache due vicende che, senza facili o enormi entusiasmi, sembrano tradire la resistenza della proprietà, questo diritto che connota lo sviluppo stesso della civiltà umana, per dirla con Mises, contro la mera riduzione a un destino di coma permanente.

La prima è la pubblicazione della motivazione della sentenza n. 213/2021 della Corte Costituzionale, sul blocco sfratti.

Dopo le indiscrezioni estive, dalle quali era trasparita la salvezza della normativa che aveva sospeso l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili occupati da inquilini morosi, e nel peana giubilante di organizzazioni di estrema sinistra e di alcuni politici – da sempre attenti solo ad una declinazione unilaterale della ‘emergenza abitativa’, vista e considerata come possibilità di esproprio proletario della aborrita proprietà privata nel nome di una presunta, ontologica minorità di classe degli inquilini – qualche buona notizia arriva ora dalla sentenza, leggibile nel suo complesso.

Il giudizio è stato promosso dai Tribunali di Trieste e di Savona, entrambi in funzione di giudice dell’esecuzione, su preziosa iniziativa di Confedilizia, una delle poche voci che nel corso dei mesi ha voluto ricordare che il diritto di proprietà non è abuso castale ma presidio di civiltà e che i proprietari immobiliari non sono ‘padroni di casa’ con lo scudiscio in mano, dei latifondisti crudeli e insensibili, ma semplicemente persone che spesso possono contare soltanto sull’affitto di un immobile per tirare a campare: ristabilendo un minimo di ordinato senso logico, Confedilizia, anche pubblicando giorno dopo giorno le vicende umane, prima ancora che economiche, di proprietari immobiliari alle prese con gli abusi, questi sì davvero abusi, di inquilini prepotenti e scaltri, ben a conoscenza dei privilegi spesso elargiti da un demagogico senso di protezione sociale del legislatore, è riuscita con la promozione del giudizio di costituzionalità a puntellare un diritto che si stava via via degradando e sfilacciando, sotto il peso insostenibile del combinato disposto della emergenza pandemica e del populismo di una vasta parte del mondo politico.

Intendiamoci, la sentenza della Corte Costituzionale non rappresenta un passaggio per cui stracciarsi le vesti per la gioia, ma se non altro puntella e pone, come si diceva, alcuni paletti, che mettono in mora il legislatore e finiscono per rendere meno giubilanti i professionisti dell’occupazione sine titulo delle case altrui.

Nella sentenza, come in gran parte dei provvedimenti giudiziari limitativi di diritti che si sono susseguiti nel corso degli ultimi anni, l’emergenza pandemica è un tetro convitato di pietra che alimenta e orienta i convincimenti del giudice delle leggi: è dato leggere infatti a proposito del blocco degli sfratti, “l’iniziale sospensione, nella sua ampia portata riguardante tutti i provvedimenti di rilascio degli immobili, era motivata dall’eccezionalità della situazione determinata dal rapido diffondersi dalla pandemia da Covid-19, che ha creato un’inedita condizione di grave pericolo per la salute pubblica”.

La salute pubblica, lo avevano avvertito per tempo poche ma illuminate voci nella dottrina costituzionalistica, rischiava sin da subito, per il suo aroma fagocitante e totalizzante, di trasvolare dal campo sanitario a quello latamente politico e sociale, finendo con il piegare qualunque altra libertà e qualunque altro diritto. Frutto di un collettivismo quasi psicologico e incistato nel profondo del nostro tessuto ordinamentale, anche di rango costituzionale, come ci si può accorgere ad una lettura sia pur distratta dell’articolo 42 della Costituzione.

Questa aura di prevalenza del collettivo sull’individuale e dell’emergenza sulla normalità si evince anche dall’espresso riferimento al lemma ‘solidarietà collettiva’: scrivono infatti i giudici costituzionali, “per effetto delle misure di contenimento della pandemia, nel periodo dell’emergenza sanitaria vi è stato l’arresto di fatto di numerose attività economiche con conseguente difficoltà di ampi strati della popolazione, per fronteggiare le quali è stata posta in essere un’ampia e reiterata normativa dell’emergenza con l’impiego di consistenti risorse economiche nella logica della solidarietà collettiva”.

E poco importa che nelle ingenti risorse economiche vi siano anche i denari dei proprietari immobiliari il cui sacrificio è stato ritenuto razionale e ragionevole, proprio nel nome della eccezionalità pandemica. D’altronde, i proprietari hanno continuato a pagare le loro sanguinose e sudate tasse, con le quali alimentare il servizio sanitario nazionale sotto stress pandemico, aiutando, così facendo, anche le ragioni dei loro inquilini morosi, ormai trasformati in autentici occupanti abusivi.

La Corte Costituzionale mette nero su bianco la sacrificabilità di alcuni diritti, e poco importa pure qui che il bilanciamento in realtà sia piuttosto pencolante: “in questa eccezionale situazione di emergenza sanitaria, la discrezionalità del legislatore nel disegnare misure di contrasto della pandemia, bilanciando la tutela di interessi e diritti in gioco, è più ampia che in condizioni ordinarie”.

Vero, ma le esigenze dei proprietari immobiliari appaiono sempre recessive, come se essi fossero dei privilegiati. In realtà questi ‘privilegiati’ su quelle case, da cui non ricevono alcuna rendita vista la conclamata morosità degli inquilini, ci pagano le tasse, spesso le utenze, assistendo anche a un inesorabile degrado del valore dell’immobile stesso, non sempre tenuto con cura (pietoso eufemismo) dall’inquilino conflittuale e riottoso.

Il disvalore, come fattore culturale, di cui è ammantata la proprietà privata emerge peraltro da alcuni infelici passaggi della pronuncia. “Con riferimento all’incidenza sproporzionata della misura in esame sul diritto di proprietà del locatore, occorre ricordare che questa Corte, anche in pronunce recenti, ha ribadito che un’ingerenza nel diritto al pacifico godimento dei beni è ammissibile ove sussista un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e la salvaguardia dei diritti dell’individuo”, questo passaggio in particolare, alla luce concreta di che cosa è stato e ancora è il blocco degli sfratti, lascia molto amaro in bocca.

D’altronde è il caso di ricordare che le misure legislative in parola hanno salvato anche inquilini morosi la cui morosità si era sedimentata ed era stata giudizialmente accertata in epoche assai precedenti rispetto l’infuriare pandemico. E questo aspetto invero i giudici di Trieste e di Savona lo avevano correttamente eccepito, ma la Corte è passata oltre.

Certo, dopo questa trafila di considerazioni si potrebbe obiettare che buone notizie non sembrano essercene per i proprietari. In realtà non è così, perché la Corte riconosce che “il sacrificio per i locatori non poteva che essere temporaneo. L’emergenza può giustificare, solo in presenza di circostanze eccezionali e per periodi di tempo limitati, la prevalenza delle esigenze del conduttore di continuare a disporre dell’immobile, a fini abitativi o per l’esercizio di un’impresa, su quelle del locatore”. La considerazione, in un Paese come l’Italia, non è scontata né banale.

Ancora meno scontato è il riconoscimento, espresso, della necessaria temporaneità della compressione del diritto di proprietà.

“Mette conto, infine, rilevare che, se l’eccezionalità della pandemia da Covid-19 giustifica, nell’immediato e per un limitato periodo di tempo, la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili (anche perché, in particolare, vi è stato, da parte del legislatore, un progressivo aggiustamento del bilanciamento degli interessi e dei diritti in gioco, nei termini sopra indicati), d’altra parte però questa misura emergenziale è prevista fino al 31 dicembre 2021 e deve ritenersi senza possibilità di ulteriore proroga, avendo la compressione del diritto di proprietà raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale”.

L’asserzione, in apparenza assai perentoria, merita un plauso, perché riconosce che la limitazione del diritto di proprietà rischia di divenire del tutto irrazionale laddove cronologicamente estesa in maniera eccessiva.

Ho scritto ‘in apparenza’: lungi da me sbollire fremiti di ritrovata euforia, ma il passaggio finale della Corte, subito dopo le frasi riportate sopra, è piuttosto ambiguo.

“Resta ferma in capo al legislatore, ove l’evolversi dell’emergenza epidemiologica lo richieda, la possibilità di adottare altre misure più idonee per realizzare un diverso bilanciamento, ragionevole e proporzionato”, scrivono infatti i giudici delle leggi. Messa giù così, sembrerebbe quasi residuare spazio per ulteriori, creativi, provvedimenti legislativi limitativi del diritto di proprietà, semplicemente diversi rispetto al blocco degli sfratti.

Mi vengono in mente alcune idee non propriamente commendevoli che potrebbero balzare alla attenzione del sempre fantasioso legislatore, ma è meglio non dare idee.

La seconda vicenda è quella, a lieto fine (anche se un lieto fine molto amaro e parziale), del signor Ennio Di Lalla, 86 anni, che nel popoloso e popolare quartiere romano di Don Bosco si è visto occupare casa da alcune donne Rom, dopo che lui si era recato in ospedale per accertamenti sanitari.

Premesso che viviamo in un Paese in cui ormai le funzioni di ordine vengono esplicate più dalle trasmissioni televisive che non dal potere pubblico, con la trasmissione Fuori dal Coro di Mario Giordano divenuta surrogato di una Procura della Repubblica nell’opera meritoria di dis-occupazione di case occupate abusivamente, la vicenda del signor Ennio è assurta a positivo indicatore culturale che ha richiamato la generale attenzione sul fenomeno delle case occupate, di cui quella di Di Lalla è solo punta dell’iceberg.

Nella vicenda di Di Lalla scorgiamo tutta la morfologia della lenta agonia del diritto di proprietà in questo Paese: prepotenza degli occupanti, anche lessicale, devastazione indegna della casa, timidezza estrema di una vasta parte della politica che sulla vicenda ha osservato un liturgico silenzio, intervento attivo solo dopo che il caso aveva beneficiato dei riflettori mediatici. Il campionario completo del degrado istituzionale italiano.

D’altronde con politici che corteggiano molto spesso il mondo degli occupanti abusivi, che organizzano incontri e convegni dentro centro sociali, che considerano strutturalmente la proprietà privata un abuso e un privilegio, c’è poco da essere fiduciosi.

Il sindaco Gualtieri ha telefonato a Di Lalla solo dopo che lo stesso aveva confidato il suo scoramento e il silenzio delle istituzioni nei confronti della sua situazione: l’unica esponente politica che si era attivata, con comunicati e andando fisicamente sul posto, era stata la consigliera regionale della Lega Laura Corrotti, con in seguito altri esponenti del partito di Salvini intenti a sollevare il velo di silenzio sul caso. E dulcis in fundo, solo dopo appunto, la telefonata del sindaco.

Il vero problema è che la casa di Di Lalla non è solo devastata e sporcata, resa quasi inagibile, ma è anche sequestrata dalle autorità: perché nei fatti ad oggi per procedere ad una sorta di sgombero di un immobile occupato, si procede in punta di sequestro preventivo, e quindi con la apposizione di sigilli che perimetrano e impediscono la reiterazione e la prosecuzione del reato ma pure l’ingresso in casa del legittimo proprietario.

Una soluzione insoddisfacente, nata dalla esperienza concreta, nel silenzio imbarazzante del legislatore.

Se non altro, il grande clamore suscitato ha spinto sia Forza Italia sia la Lega a proporre due modifiche alla normativa vigente, per snellire l’iter procedurale di sgombero dell’immobile occupato e prevedendo sanzioni più severe.

Vedremo, anche in occasione dell’interessante convegno organizzato dal think tank Mercatus e ospitato da Confedilizia nella sua sede capitolina, dall’assai significativo titolo “Proprietà e libertà sotto attacco”, e che si terrà a Roma il 30 novembre (ospiti il padrone di casa presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa, Daniele Capezzone, Camilla Conti, l’onorevole della Lega Giulio Centemero, il prof. Giuseppe Valditara, ed altri), come si evolveranno le cose.

Centrosinistra, con appendice grillina, chiaramente silenti, a parte la scontata telefonata del neoeletto sindaco al povero Ennio. La proprietà privata, quando è altrui, non è problema che li riguardi.

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