I Giochi Paralimpici di Tokyo si sono rivelati un successo straordinario per i nostri colori. Un risultato frutto della determinazione di uomini e donne eccezionali, in grado di spingersi ben oltre i propri limiti. Imprese epiche che, di certo e meritatamente, resteranno nella memoria sportiva nazionale. Non saranno dimenticate. È stata una stagione unica, forse irripetibile, in cui l’inno di Mameli è risuonato più volte, negli ambiti più disparati dell’universo sportivo, in ogni angolo del pianeta. Ci siamo sentiti tutti molto più italiani e decisamente fieri di esserlo. Ci voleva, eccome, una buona e sana ventata di amor patrio, che piaccia o meno ai globalisti insipidi di ogni epoca.
Detto questo, ora viene il difficile, cioè scansare le retoriche e apprendere l’insegnamento racchiuso nelle vicende appena trascorse. Dalla storia, anche da quella recente, si impara, in quanto maestra di vita, secondo il noto adagio ciceroniano. Altrimenti, il tempo si subisce e lo si perde, divenendo meri passanti nel cammino delle esistenze altrui.
Le Paralimpiadi ci hanno emozionato e provocato, suscitandoci dilemmi di non semplice soluzione. Lo sport è patrimonio di tutti? Quali sono i reali ostacoli che si frappongono al raggiungimento di traguardi e legittime ambizioni personali? Cosa significa, nel concreto, essere portatori di differenti abilità? Ha ancora senso, oggi, distinguere il mondo in base a categorie funzionali, come la salute e la malattia?
Procediamo con cautela e rigore, evitando banalizzazioni di sorta. Il tema è delicato e merita rispetto. Il linguaggio, e con esso la sensibilità pubblica, si è notevolmente evoluto negli ultimi decenni, descrivendo le differenti realtà, e condizioni, in modo più adeguato e consono. Si parla sempre meno di handicap o di soggetti portatori di disabilità, prediligendo espressioni in grado di esaltare, positivamente e propositivamente, le qualità e i punti di forza di ogni singolo soggetto. Si è ridotta, inoltre, la distanza, percepita e vissuta, tra i cosiddetti “normodotati” e coloro che soffrono di specifiche patologie invalidanti. Nella vita, tutti vivono, prima o poi, esperienze di fragilità, impedimento e limitazione: la malattia, l’infortunio e la vecchiaia creano continue oscillazioni che riducono il raggio delle nostre possibilità di scelta e di azione. In senso lato, non si proferisce astrusità ammettendo che la “diversa abilità” riguarda l’intero genere umano, con tempi e modi, ovviamente, estremamente variegati.
Lo sport, in modo particolare, è divenuto negli anni un luogo di inclusione e di arricchimento, un contesto di vita pratico e simbolico che dovrebbe essere assunto da esempio per altri ambiti del vivere civile. Lo sport è divertimento, sfida, competizione, ma anche strumento per ottenere salute, benessere, instaurando amicizie e relazioni autentiche. Quindi, lo sport è patrimonio di tutti ed è bene che continui ad esserlo.
Dove risiedono le criticità? Perché, nonostante le belle premesse, persiste nell’aria un odore acro e fastidioso? Non si scorge il lieto fine, purtroppo.
L’articolo 3 della Costituzione Italiana afferma con forza come tocchi alla “Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Esiste forse articolo più disatteso di questo? La politica si è adoperata adeguatamente, e con efficacia, nel corso dei decenni, rimuovendo tutti quegli ostacoli che negano a una fetta significativa dei cittadini il pieno godimento dei propri diritti? In alcuni casi, le “differenti abilità” non sono imputabili ad un’inefficacia sistemica della macchina amministrativa e governativa, nel confrontarsi con temi attinenti, nell’accezione più larga del termine, la disparità e la diversità?
Barriere architettoniche, carenza di personale scolastico di sostegno, pensioni d’invalidità imbarazzanti, trasporti pubblici del tutto inadatti: ogni giorno, milioni di persone, sconosciute e anonime, vivono le proprie tormentate paralimpiadi, sorrette, in molti casi, soltanto dall’amore della propria famiglia. L’augurio è che dopo i post e i tweet sui social, la politica non faccia nuovamente spallucce, non distolga lo sguardo dalle sfide che più le competono, garantendo dignità e possibilità a tutti i cittadini.
Al Comitato Olimpico Internazionale suggerirei, invece, di rivedere il calendario degli eventi, anticipando i Giochi Paralimpici rispetto a quelli “tradizionali”, non con l’intento di creare una gerarchia tra le due manifestazioni, ma per ridurne le distanze, ricordando così come il momento dei “giochi”, sin da piccoli, sia per antonomasia il praticantato necessario per guadagnare la piena maturità fisica, etica e cognitiva. Lo spirito olimpico non solo non ne risentirebbe, ma conferirebbe alla fiamma inestinguibile che brucia e consuma la torcia di quei giorni, il sapore dolcissimo della giustizia e dell’equità.