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La lezione di Sant’Agostino: ma non basta il coraggio per cambiare le cose

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Sant’Agostino scriveva: “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. Nella concezione ascetica agostiniana, scaturita in gran parte con l’incontro che gli cambiò la vita, quello con il vescovo di Milano, Sant’Ambrogio, che lo battezzò, il pensiero si fa azione, guidato dalla luce della contemplazione dei valori supremi, e quindi seguendo una linea ben precisa voluta e tracciata da Dio. Secondo Agostino da Ippona il male esiste perché su di esso deve trionfare inevitabilmente il bene e quindi anche le persone più malvagie e le più orrende turpitudini umane devono necessariamente condurre al bene, sempre che si ammetta l’esistenza di Dio come supremo bene.

Noi moderni, assai più prosaicamente e più laicamente, siamo soliti affermare che bisogna sempre far di necessità virtù, quand’anche non sia necessario cavalcare la tigre. È nella natura umana pensare a quando smetteranno finalmente le piogge più dannose, a quando finalmente farà giorno dopo certe notti tribolate ed insonni, a quando dopo tanta fatica si potrà riposare. Tendiamo genericamente a guardare verso la fine del tunnel, alla pianura dopo l’aspra salita, alla ricompensa dopo tanto lavoro. Senza una buona aliquota di ottimismo sciuperemmo inutilmente il nostro già limitato tempo a piangerci addosso e quindi possiamo affermare che sia decisamente meglio rimboccarsi le maniche quando tutto sembra andare malissimo, rispetto al fatalismo del cinico osservatore delle cose del mondo che se ne sta seduto a guardare il fiume in piena aspettando di vedere confermate le sue previsioni nefaste.

È, quella dei pessimisti, una categorie di persone che possiamo incontrare e leggere assai di frequente proprio in questi tempi, caratterizzati dalla crescente richiesta di punti fermi, di prese di posizioni draconiane da seguire, di fari che squarcino la notte e che ci possano indicare il porto sicuro verso il quale fare rotta. Sennonché, pure essendo, di norma, assai invocato il ruolo del condottiero tra le disorientate truppe, è peraltro facile guadagnare consensi e potere buttandosi sulle previsioni catastrofiche, rispetto a chi faccia suoi i modelli più ottimistici e propositivi. Facile prevedere che, mettiamo si parli di economia, non abbiamo ancora toccato il fondo, giacché quel fondo non lo toccheremo mai e proprio perché siamo noi a spostare sempre più in basso il fondo del barile. Altrettanto più agevole, parlando di questa stramaledetta pandemia, dire che non se ne uscirà mai del tutto, perché tali e tante saranno le varianti e combinazioni da rendere necessario aggiornare continuamente i vaccini. Per quanto ciò accada per la maggior parte delle malattie virali e non sia possibile dire che dopo centinaia d’anni siano stati del tutto sconfitti il colera o il vaiolo, buttarla sulla previsione in stile Cassandra è di gran moda ed, evidentemente, dà gran soddisfazione ai tanti, troppi, ai quali si richiedano previsioni sicure ed affidabili sullo sviluppo futuro della calamità.

Ben più difficile essere ottimisti di successo, anche se nessuno al mondo ha mai dimostrato che le previsioni ottimistiche, in generale, siano state sconfessate più di quelle pessimistiche. Non siamo certo qui a dire che la melensa frase “andrà tutto bene” con tanto di sfondo arcobaleno in stile Pace-Lgbtq fosse una gran verità o un potente antidoto, ma se a molti piaceva farsi forza con stonati concertini ai balconi adornati con bandierine colorate da maestrine negate per le arti grafiche va bene lo stesso, ci mancherebbe. I gusti son gusti e se tutto fa brodo, si spera sempre che sia perlomeno commestibile.

Il vero punto critico sembra tuttavia essere un altro, ossia quello relativo alla nostra smisurata fame di certezze, forse perché viviamo l’epoca in cui né la cristiana rassegnazione del padrenostro né l’entusiasmo fanatico delle folle plaudenti al duce del momento sembrano più avere lo stesso appeal di qualche anno fa. Dopotutto abbiamo fortemente voluto noi stessi essere al corrente di tutto, controllare tutto, dire la nostra su tutto. Certo, erano ben più felici quegli anni in cui, sapendo esageratamente meno di oggi ciò che realmente accadeva nel mondo, si riusciva ad occuparci delle nostre piccole grane famigliari e delle minime beghe di vicinato, lasciando che fossero altri ad occuparsi dei massimi sistemi. Difficilmente mi si potrà indicare una terza via tra il lasciare fare agli altri, senza manco sapere ciò che fanno, e farlo noi stessi, essendo al corrente di tutto ed avendo enormi strumenti individuali. Siamo fortemente contraddittori nell’affermare contemporaneamente che vorremmo chi ci portasse fuori dalle secche (condottiero, ducetto, capopolo, autorità religiosa che sia) mentre affermiamo che tutto ciò che è Stato deve essere trasparente e validabile da tutti noi. Uno Stato, qualunque esso sia, ha le sue ombre, le sue decisioni impopolari e mai rivelate, quei cambi di rotta che permettono alla macchina di non impantanarsi.

Se le cose non ci piacciono, diceva Agostino, cambiamole. Ma resta il coraggio e quello non si compra al centro commerciale e nemmeno online. E, se vogliamo essere sinceri, nemmeno quello basta, caro Sant’Agostino: ci vuole anche la capacità. Un buon punto di partenza potrebbe essere non mettere troppa carne sul fuoco, sempre che non ce lo vietino gli intolleranti vegani, poca o tanta che la carne sia, perlomeno non buttando sulla griglia cibi troppo diversi ed incompatibili tra loro, se non dannosi quando frammischiati imprudentemente. Dall’insegnamento di Agostino, tuttavia, possiamo avere, comunque la si pensi sulla religione, un bello spunto di riflessione, laddove predicava che il difficile cammino verso la luce fosse da compiersi in solitudine, senza clamore, in umiltà. Non stiamo forse magnificando oggi quel gregge di osservanti acritici che ci condurranno alla salvifica immunità? Badate bene, non sto facendo riferimento al coronavirus (che, a giudicare da certe scemenze che si sentono sembra persino diventato un coronavino) ma a quell’odioso concetto dello stare rinchiusi a comando ed uscire sotto scorta e per periodi brevissimi dal recinto. Sapete quante volte abbia già espresso proprio su queste pagine il mio per nulla celato disprezzo per tale orrenda figura retorica. Soltanto a sentire parlare di “gregge” mi viene l’orticaria. Non so belare e non intendo imparare a farlo ma, soprattutto, non intendo mettermi carponi, chiunque provi a ordinarmelo.