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La libertà ci differenzia dal modello cinese, ma non è scontata né gratuita, va difesa dai violenti

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Il modello democratico occidentale è alle prese con una sfida epocale, scatenata dalla pandemia. Gli individui giocheranno un ruolo chiave per difenderlo sia dai violenti che si appellano ai diritti come pretesto, sia dalle mire espansionistiche di sistemi totalitari

Mentre il mondo si chiudeva in quarantena per l’ondata di Covid-19, lo storico britannico Niall Ferguson provava a ipotizzare i prossimi scenari mondiali e a calibrare il peso degli Stati Uniti e della Cina, domandandosi alla fine della sua riflessione, pubblicata sullo Spectator, dove le future ambiziose generazioni potranno trovare le migliori opportunità. “La risposta è scontata”, concludeva Ferguson, soffermandosi su un punto chiave: la libertà resta il primo investimento per risollevarsi dopo lo shock economico provocato dalla pandemia.

La libertà però non è altrettanto scontata e gratuita. Richiede particolare cura da parte della società che la coltiva e che la sbandiera come valore intrinseco, anche se spesso politicizzato – è più facile inneggiare ad essa quando si vogliono difendere le proprie idee, diventa più difficile farlo con le opinioni contrarie. Le cronache di queste turbolente settimane fanno da monito.

Le proteste generate in America per l’omicidio a Minneapolis di George Floyd sono legittime e giustificate. È un privilegio delle democrazie in cui viviamo, che spesso diamo per scontato, ma certe ricorrenze aiutano a rimarcare che non dovrebbe essere così: il 4 giugno, mentre gli attivisti riempivano le vie delle principali città statunitensi e mondiali in un’ondata di indignazione verso le forze di polizia e più in generale verso le istituzioni governative, cadeva il 31° anniversario della repressione in piazza Tiananmen.

Che la violenza sia un tratto distintivo di un regime non sorprende. Che invece diventi il marchio di un’indignazione antirazzista lascia molto più che perplessi: il nobile principio della libertà di protesta è stato sbandierato per dare libero sfogo ai peggiori istinti, riversati nel peggiore dei modi su cittadini inermi che hanno visto le loro attività commerciali, già provate dal lockdown, razziate e vandalizzate, contagiando diverse parti del mondo occidentale. Il tutto con la complicità di quella fetta di whites privileged che hanno deciso di dare man forte armandosi di spray, spranghe e mattoni per uscire dalla noia della quarantena e destabilizzare un sistema che ha garantito loro le opportunità migliori, con lo scudo della libertà democratica a difenderli.

Uno spettacolo agli occhi della propaganda cinese che mentiva sul diffondersi del virus e che, ora, esprime sostegno ai diritti umani dei neri d’America, approfittando della disattenzione mediatica mondiale, concentrata sulle notizie d’Oltreoceano, per silenziare i giovani di Hong Kong. Per quanto Pechino abbia provato a cambiarsi d’abito per assicurarsi maggiore appeal, resta il lupo di sempre.

In un tempo imprevedibile come quello che stiamo attraversando, il suggerimento di Margaret Thatcher che tanto fa arricciare il naso negli ambienti progressisti è prezioso: non esiste la società, ma esistono gli individui che, condividendo interessi e obiettivi, contribuiscono a creare la comunità nella quale viviamo e muoviamo. Perché questa possa reggersi, prosperare e rimettersi in piedi dopo uno shock epocale, è fondamentale non dare per scontato nulla, soprattutto un elemento cardine come la libertà che richiede inevitabilmente il rispetto reciproco prima che si tramuti in permissivismo senza limiti e buonsenso.

All’uomo d’altronde basta poco per trasformarsi in una iena impazzita e violenta e per ingabbiarla lo stato spesso si affida a misure draconiane che contribuiscono alla sua fame di potere e a cancellare la più grande delle opportunità che le nuove generazioni hanno per aspirare al meglio: la libertà, valido vaccino alla violenza, che sia quella totalitaria o della massa inebriata dall’odio.

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