La logica fai-da-te della politica italiana

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Per gli antichi, la logica era l’arte del pensiero virtuoso, ossia del bene ragionare per la giusta causa. Troppo impegnativo, lasciamo perdere. Per i matematici è invece un metodo di analisi scientifica, attraverso l’uso di regole e simboli, quindi un sistema per mettere ordine nel ragionamento seguendo un percorso consolidato. Possibile, con un po’ di applicazione ed una buona base teorica. Per molti italiani, tuttavia, la logica sembrerebbe invece essere un optional del ragionamento e della manifestazione del pensiero, per cui non sarebbe essenziale. Se fosse ancora ritenuta importante, non avremmo tante manifestazioni illogiche e contraddittorie come vediamo ogni giorno. Difficilmente la logica fa del paradosso un suo strumento, eppure il paradosso è socialmente accettato, come nella stridente contraddizione di chi, discutendo con qualcuno, dice al suo interlocutore “vuoi sempre aver ragione tu!” come se, avendo torto quello a cui si rimprovera di volere la ragione, la stessa non sarebbe, guarda caso, proprio di chi muove il rimprovero. Siamo diventati così illogici, che il buffo sillogismo del treno (la nonna corre-il treno corre-la nonna è un treno) è assolutamente applicabile a tanta parte del ragionamento teorico dei guru della comunicazione attuale e su tali esagerazioni di facile presa si basano addirittura le campagne divulgative a scopo sociale. I “giusti” del mainstream assumono, in modo del tutto illogico, che l’altra parte abbia torto sulla base della apodittica certezza di essere nel giusto, senz’alcun onere della prova e senza sentirsi tenuti ad approfondire le tematiche altrui prima di confutarle. Anche una ragazzina che nemmeno più frequenta la scuola pretende di dettare regole ai potenti del mondo, ed a tantissima gente tale obbrobrio pare geniale e meritevole di svariati premi Nobel. È preoccupante assistere al fenomeno delle regole fai-da-te di chi non vuole seguire quelle che hanno caratterizzato l’intera civiltà, non già perché possa dimostrarle errate, ma semplicemente perché non le conosce! Siamo diventati così illogici che arriveremo a far delineare i programmi di studio dagli stessi studenti, possibilmente ai primi anni perché più “spontanei”.

A tanto orrore collabora certamente la smania di appiopparsi l’etichetta del “giusto” e tutti sembrano desiderosi di apparire democratici, pluralisti e liberali (e sentire addirittura dei navigati comunisti definirsi liberali fa francamente ridere). Alla stringente prova dei fatti, che sia un dibattito televisivo o una polemica sui social, larga parte dello scontro è dedicata a dimostrare all’uditorio che l’avversario sta dicendo sciocchezze, più che a spiegare e dimostrare la bontà delle proprie idee alternative a quelle. Si procede dunque per provocazioni che possano suscitare fastidio nell’interlocutore, rinfacciandogli colpe (perlopiù sempre le stesse e riportate con una sorta di copia-incolla verbale), senza dare di sé, nel migliore dei casi, che una buona performance dialettica ma assolutamente mai proponendo alternative. E dire che la vecchia e cara logica proporrebbe in moltissimi dibattiti una formidabile arma di difesa: chiedere “ok, se io sbaglio quali alternative proporrebbe lei?” ma nient’affatto: più che far scoprire le carte dell’avversario (uno dei pilastri della strategia e dell’intelligence) si perde tempo cercando di sputtanarlo, poi il tempo è tiranno, finisce l’incontro e, insulti a parte, poco è rimasto agli uditori.

Per quanto sia tramontata l’epoca dei grandi oratori, e certamente la gente degli stessi possa benissimo farne a meno, ciò che sembra contare è portare colpi all’impazzata contro il contendente, con una tattica che non paga non soltanto nell’agone politico, ma nemmeno in campo militare né in quello sportivo. Una guerra non si vince di certo menando all’impazzata cannonate a casaccio in direzione del nemico, lasciando scoperte le difese ed il sostenimento e ricambio delle truppe, così come una squadra di calcio non potrà mai vincere un campionato coi soli attaccanti. La logica a cui si attiene la strategia (che armonizza le azioni tattiche in un disegno più ampio e armonico) sembra essere del tutto trascurata proprio da quelli che dovrebbero insegnarcela prima di proporsi come nostri comandanti.

Per avere consenso diffuso basterà dunque valutare a come uno razzoli, piuttosto che a come parli? Da un certo punto di vista, sì, sia pur con tutte le difficoltà di valutare qualcuno mettendo assieme frammenti, gesti episodici, fatti riportati dalla stampa, spesso faziosa e mendace. Se ancora il voto ha un peso, evidentemente viene conferito (il termine è corretto, perché col voto si conferisce un mandato rappresentativo) anche ai non pochi candidati che parlano malissimo l’italiano, lo scrivono peggio e non sono certo dei campioni di logica, quando non siano assoluti ignoranti, perché prevale addirittura l’aspetto fisico e la simpatia istintiva rispetto alla sostanza. Se poi si provenga da qualche trasmissione leggere della tv il successo è quasi certo.

Potrebbe essere che, alla fine, i parlamentari siano semplicemente dei numeri a comporre i ranghi di questo o di quel partito? Mettiamola come preferiamo, ma sostanzialmente si vota un partito e spesso anche alle elezioni amministrative è il partito ad attirare il voto ben più del candidato. Chi faccia parte fisicamente di quel partito conta assai meno di quanto si potrebbe pensare. Tutt’al più si utilizzerà qualche passata ruberia o clamoroso dietrofront dei singoli parlamentari per screditare, più che gli stessi, il partito di cui fanno parte.

È un dato facilmente riscontrabile che nostra politica sia ancora basata su una robusta logica partitica, ove l’elemento umano è del tutto secondario rispetto all’entità simbolica, per quanto astratta, che è il partito, vero destinatario dei consensi popolari. Gli unici ed ultimi due partiti italiani a possedere tale forte connotazione identitaria furono il PCI e la DC. Finiti quelli, sono finiti pure i partiti, intesi in senso classico. Una struttura basata sulle storiche e monolitiche ideologie (il comunismo/socialismo, la destra reazionaria, i valori del cattolicesimo sociale) non ha più la forza e la trazione del partito, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Senza un vero partito di riferimento, la politica parlamentare stessa non ha senso ed è illogica.

Pochi sono, tra i politici dell’ultima generazione, quelli così lucidi (e quindi logici) da tenere in prioritaria considerazione il mantenimento in buona salute del partito più che occuparsi delle bizze di qualche esponente in cerca del famoso quarto d’ora di celebrità o di qualche fesseria del singolo. Che ci piaccia o meno, da sempre ed in tutto il mondo i partiti sono la più efficace forma di partecipazione sociale alla cosa pubblica. Parrebbe invece un pregio, spesso non sapendo ciò che si dice, vantarsi di non essere un partito e rifiutare pervicacemente di essere definiti un partito. Tutti gridano (perché oggi non si parla più, si grida) a quanto sia bello appartenere ad una formazione organizzata di persone che lavorano assieme per un fine comune pur incavolandosi assai se si dice loro di aver fatto un partito, che è la migliore e più democratica espressione di quelle comunioni d’intenti nello stato di diritto. Quanta logica si rinviene nell’essere a tutti gli effetti un partito, e pure presente in Parlamento, e non volerlo riconoscere? E quanta ne troviamo nel movimento che nemmeno ha iniziato a definire cosa vuole e da che parte stare, mai i cui agitatori (andiamoci piano a definirli leaders) già si vedono seduti, e pure in folta delegazione, sulle rosse poltrone romane? Nessuna. Sarà forse perché la logica presupporrebbe di leggere qualche testo in più e imparare umilmente per un bel po’, prima di dar lezioni al Paese o, peggio ancora, di governarlo?

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